APERTURA
DI CREDITO - RECESSO DELLA BANCA
( Cassazione –
Sezione I civile – Sent. n. 9321 - Presidente E. Altieri – Relatore G. Salmè )
SVOLGIMENTO
DEL PROCESSO
Con atto di
citazione del 4 luglio 1995 G. S. ha convenuto in giudizio davanti al tribunale
di Milano il (omissis), filiale di Milano, esponendo che: a) il 22
febbraio 1994 aveva stipulato un’apertura di credito fino ad un massimo di sei
miliardi di lire, da restituire entro cinque anni, concedendo in garanzia
ipoteca su un terreno di sua proprietà fino a concorrenza di dodici miliardi;
b) a ulteriore garanzia delle obbligazioni restitutorie eventualmente derivanti
dall’apertura di credito aveva sottoscritto un’assicurazione sulla vita a
favore della banca per un capitale di sei miliardi e aveva dato in pegno dei
titoli; c) aveva, infine, conferito alla banca il mandato a gestire il proprio
patrimonio immobiliare. Sul conto corrente relativo alla gestione patrimoniale
la banca aveva accreditato la somma di tre miliardi, proveniente dall’apertura
di credito, che in tal modo si era ridotta all’importo di tre miliardi. Avendo
il S. contestato l’andamento negativo della gestione patrimoniale, in relazione
alla quale, in breve tempo, si erano formate rilevanti passività, e avendo
conseguentemente revocato il mandato a gestire, la banca aveva chiesto e
ottenuto dal cliente un’attestazione di avere bene operato e la riduzione
dell’apertura di credito a tre miliardi, ma ciò non ostante, con lettera del 6
marzo 1995 aveva dichiarato risolto il contratto, sostenendo di avere scoperto
che il S. aveva falsamente dichiarato di non far parte di società di persone,
all’epoca della stipulazione dell’apertura di credito e nei ventiquattro mesi
precedenti, mentre in realtà era stato prima socio ed era attualmente
liquidatore della (omissis), in liquidazione. Tale motivazione,
secondo l’attore, era pretestuosa perché la società, da tempo in liquidazione e
della quale egli aveva ormai ceduto la sua quota di partecipazione, non aveva
mai operato e aveva accumulato un modestissimo passivo, peraltro già sanato. In
realtà, la banca non aveva mai avuto interesse alla sola apertura di credito e
non aveva inteso far sopravvivere questo rapporto alla cessazione della
gestione patrimoniale.
Tutto ciò premesso
il S. ha chiesto l’accertamento dell’illegittimità e dell’inefficacia della
risoluzione e la condanna della banca all’adempimento del contratto di apertura
di credito; ha chiesto inoltre l’accertamento del vizio del consenso dal quale
era affetta l’accettazione della riduzione dell’importo dell’apertura di
credito da sei a tre miliardi, frutto della violenza morale operata dalla banca
e, previo accertamento dell’inadempimento del contratto di gestione del patrimonio
mobiliare, ha anche chiesto la condanna alla restituzione delle perdite di
gestione.
La banca ha
chiesto il rigetto delle domande, sostenendo, per quanto ancora rileva in
questa sede, che la risoluzione del contratto era giustificata dalla clausola
risolutiva espressa e ha chiesto anche, in via riconvenzionale, la condanna
dell’attore al pagamento della somma di 2 miliardi 680 milioni di lire.
Con ordinanza ex
articolo 186quater c.p.c. del 5 aprile 1996 il giudice istruttore ha disposto
il pagamento di detta somma in favore della banca. L’ordinanza, che ha
acquistato efficacia di sentenza a seguito della rinuncia di cui all’ultimo
comma della indicata disposizione, è stata confermata dalla Corte d’appello di
Milano.
La Corte
territoriale ha, innanzi tutto, osservato che la tesi del S. secondo cui la
banca non poteva fare ricorso alla clausola risolutiva espressa, perché
l’erronea dichiarazione resa circa la partecipazione a società di persone
poteva costituire un vizio genetico del contratto, ma non un vizio funzionale
che potesse giustificare la risoluzione, non introduceva un nuovo tema
d’indagine, rispetto alla iniziale domanda di accertamento dell’illegittimità
della risoluzione, rimanendo immutati i termini oggettivi della controversia.
La Corte d’appello ha quindi affermato che, in realtà, al di là dei termini
giuridici utilizzati, la banca non si era avvalsa di una clausola risolutiva
espressa, ma del diritto di recesso e che l’esercizio di tale diritto era
legittimo. Infatti, come le parti possono escludere che per il recesso dal
contratto di apertura di credito sia necessaria una giusta causa, così possono
anche tipizzare la giusta causa di recesso. Ciò che in concreto era avvenuto,
in quanto le parti avevano stabilito che le dichiarazioni rese dall’accreditato
sarebbero state considerate giusta causa di recesso, nel senso che, ove si
fossero rivelate sostanzialmente non veritiere o fuorvianti, avrebbero
consentito alla banca di esercitare il diritto di recesso, rimanendo escluso
che il giudice, sovrapponendo la sua valutazione a quella riservata
all’autonomia dei contraenti, potesse apprezzare l’importanza del fatto posto a
fondamento dell’esercizio del diritto di recesso in relazione all’assetto degli
interessi stabilito dalle parti nel contratto. Inoltre, poiché la circostanza
sottaciuta dal S. era rilevante come causa del recesso e non di risoluzione, il
momento al quale deve essere riferito l’accertamento della veridicità delle
dichiarazioni non sarebbe stato quello iniziale della stipulazione del
contratto, ma quello successivo dell’esercizio del recesso. Ne deriverebbe
l’irrilevanza della eventuale conoscenza di fatto della non veridicità delle
dichiarazioni da parte delle banca al momento della stipulazione del contratto.
Né in senso contrario poteva essere invocato il disposto dell’articolo 1893
c.c., perché la norma non sarebbe applicabile nella specie per avere le parti
autonomamente disciplinato il recesso, intendendo in tal modo tutelare
l’interesse dell’accreditante a limitare il rischio nelle situazioni in cui il
controllo della solvibilità dell’accreditato è più difficile, come quando
questi debba rispondere illimitatamente delle obbligazioni derivanti dalla
gestione di un’impresa collettiva.
D’altra parte
l’esercizio del diritto di recesso, secondo la Corte territoriale, non potrebbe
essere neppure ritenuto pretestuoso, perché il fatto che la banca, che, in
ipotesi, avesse conosciuto la non veridicità delle dichiarazioni del S. al
momento della stipulazione del contratto, si sarebbe limitata a tollerare una
situazione che, in base al contratto, l’avrebbe legittimata a rifiutare il credito
a un soggetto esposto a rischi che, contrattualmente, erano esclusi, ma non
poteva obbligarla a continuare a far credito in una tale situazione. Rilevante
sarebbe stato, invece, accertare se il S. era ancora socio di società di
persone al momento del recesso, ma un tale accertamento era estraneo
all’impostazione difensiva del S. stesso.
Quanto infine
all’interpretazione dell’avverbio "sostanzialmente", la Corte
territoriale ha affermato che nella clausola contrattuale il termine era
riferito alla veridicità o non veridicità delle dichiarazioni dell’accreditato
e non poteva essere inteso, invece, come diretto a consentire margini di
valutazione giudiziale dell’interesse della banca, protetto dalla predetta
clausola. In realtà la dichiarazione del S. di non essere socio di società
personali e di non esserlo stato nei ventiquattro mesi precedenti, avrebbe
potuto essere “sostanzialmente” veritiera e non fuorviante se egli fosse stato
socio accomandante, con responsabilità limitata al conferimento, ma era “sostanzialmente”
non veritiera tenendo conto che egli era socio accomandatario, prima, e
liquidatore, poi. Né sarebbero in senso contrario rilevanti le circostanze che
la società fosse o non attiva o che avesse accumulato perdite rilevanti, perché
tali circostanze sarebbero stare apprezzabili solo ipotizzando un onere della
banca di procedere ad un’analisi economica e patrimoniale della società stessa,
mentre l’interesse protetto dalla clausola contrattuale di cui si discute
escludeva che il S. potesse fare ricorso al credito per il solo fatto della sua
partecipazione a una società di persone che comportasse una sua responsabilità
illimitata.
Avverso la
sentenza della Corte d’appello di Milano il S. ha proposto ricorso per
cassazione affidato a due motivi. Resiste con controricorso il (omissis).
Entrambe le parti hanno presentato memorie.
MOTIVI
DELLA DECISIONE
1) Con il primo
motivo il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione degli articoli
1362 e seguenti, 1427 e seguenti, 1324 e 1343, 1892 e 1893 c.c. e di tutte le
norme e principi fondamentali in tema di obbligazioni e contratti, nonché
l’omesso esame di un punto decisivo e il vizio di contraddittorietà e
illogicità della motivazione.
Il motivo si
articola in una pluralità di censure.
A) Un primo errore
dei giudici del merito sarebbe consistito nell’avere proceduto alla qualificazione
del comportamento della banca alla stregua solo di alcune clausole contrattuali,
omettendo di prenderne in considerazione altre. Infatti, la Corte territoriale
sarebbe giunta alla conclusione che la banca si era avvalsa del diritto di
recesso e non di una clausola risolutiva espressa, valutando, tra l’altro, da
una parte la pattuizione in base alla quale la banca aveva facoltà di risolvere
il contratto in caso di “inadempienze” (clausola 7.02) e quella che considerava
"casi di inadempienza" del beneficiario l’avere reso dichiarazioni
sostanzialmente non veritiere e fuorvianti (clausola 7.02.c) e, dall’altra, la
dichiarazione del S. di non far parte di società di persone (clausola 7.01.3),
mentre avrebbe omesso di prendere in considerazione la clausola (7.01) secondo
la quale "il beneficiario effettua le dichiarazioni e assume gli impegni
in appresso indicati e dà atto alla finanziatrice che la veridicità e
completezza di tali dichiarazioni ha costituito elemento determinante al fine
della conclusione del presente contratto da parte della finanziatrice.".
Alla stregua di
quest’ultima previsione, quindi, la non veridicità delle dichiarazioni del S.
sarebbe stata dalle parti considerata come vizio del consenso e come tale
avrebbe dovuto essere valutata in relazione alla conoscenza che, comunque, la
banca avesse avuto della realtà, in quanto non potrebbero essere considerate
come determinanti ai fini della formazione del consenso le circostanze che, se
pure taciute da un contraente, sono conosciute dall’altro.
B) Un secondo
errore della Corte d’appello sarebbe consistito nell’avere ignorato che, anche
ad ammettere che nella specie il comportamento della banca dovesse essere
qualificato come esercizio del diritto di recesso, rimaneva il fatto che tale
recesso era previsto in funzione di mezzo di impugnazione del contratto (e non
come recesso così detto determinativo, che ha la funzione di porre termine a
rapporti di durata che ne siano sprovvisti, o come mero potere di sciogliersi
dal rapporto negoziale). E poiché, come anche la sentenza impugnata ha
affermato, le parti non hanno il potere di introdurre ipotesi di invalidità del
contratto non previste dalla legge, l’esercizio del recesso doveva essere
valutato alla stregua della disciplina dell’annullamento dei contratti. In
particolare, se la non veridicità avesse dovuto considerarsi conseguenza di un
errore, avrebbe dovuto valutarsi se l’errore era conosciuto o riconoscibile
dall’altro contraente e se avesse dovuto ritenersi effetto di dolo avrebbe
dovuto accertarsi se gli eventuali raggiri erano tali che l’altra parte, senza
di essi, non avrebbe concluso il contratto.
C) Un ulteriore
errore sarebbe stato commesso dai giudici del merito nell’interpretare il
termine “sostanzialmente”. Usando tale avverbio le parti avrebbero inteso
affermare che il potere di recesso della banca poteva essere esercitato solo se
le dichiarazioni rese dal S. fossero state “sostanzialmente” non vere, mentre
non avrebbero potuto giustificare l’esercizio di quel potere le dichiarazioni
non vere inidonee a pregiudicare l’interesse della banca alla corretta valutazione
del rischio di insolvenza, e, quindi, in primo luogo, le dichiarazioni
inesatte, della cui inesattezza la banca ben fosse stata a conoscenza, perché
in tal caso la banca stessa avrebbe potuto proteggere il proprio interesse
semplicemente astenendosi dal concludere il contratto.
Riconoscendo alla
banca il potere di recesso anche di fronte a dichiarazioni inesatte del tutto innocue
o irrilevanti ai fini dell’equilibrio contrattuale e della protezione
dell’interesse dei contraenti (i quali, infatti, non ostante ne conoscessero la
non veridicità avevano egualmente stipulato il contratto), la Corte
territoriale avrebbe finito per attribuire alla banca un potere di recesso del
tutto svincolato dall’esistenza di una giusta causa, mentre le parti si erano limitate
a tipizzare le circostanze costituenti giusta causa, ma non avevano voluto
prescindere da tale presupposto. Peraltro, un recesso sostanzialmente libero
sarebbe in contrasto con principi fondamentali del diritto dei contratti, come
quello di buona fede, di solidarietà tra i contraenti, del divieto di abuso del
diritto. Per tale ragione l’esercizio di un siffatto diritto di recesso
costituirebbe un atto negoziale unilaterale con causa illecita.
Infine la
sentenza, dopo aver riconosciuto che, attraverso la tipizzazione della giusta
causa di recesso consistente nella non veridicità delle dichiarazioni rese dal
cliente, le parti avevano sostanzialmente introdotto una disciplina analoga a
quella dettata dagli articoli 1892 e 1893 c.c., ispirati alla medesima esigenza
di protezione dell’interesse di una parte all’esatta valutazione del rischio,
ha contraddittoriamente negato l’applicazione dei principi giurisprudenziali
elaborati in tema di interpretazione delle due disposizioni richiamate, alla
stregua dei quali è rilevante la conoscenza che l’assicuratore abbia avuto
della non veridicità delle dichiarazioni rese dall’assicurato.
D) Ulteriori
ragioni della decisività dell’accertamento da parte della banca della
conoscenza dell’inesattezza delle dichiarazioni del S. al momento della
stipulazione del contratto, secondo il ricorrente, consisterebbero: a) nel
fatto che nel marzo 1995, con le lettere con le quali la banca aveva esercitato
il recesso, la stessa aveva dichiarato di aver appreso solo in quel momento che
il S. era socio di società di persone, mentre questa affermazione era falsa e
da tale falsità deriva che il comportamento della banca costituiva
inadempimento; b) la ragione per la quale l’inesattezza delle dichiarazioni
giustificava il recesso consisteva in ciò che manifestavano insincerità e
slealtà del S.; c) l’avere concluso il contratto non ostante la conoscenza
dell’inesattezza delle dichiarazioni, dimostrava che tale inesattezza, di per
sé, non costituiva lesione dell’interesse della banca a un’esatta valutazione
del rischio assunto.
E) La corte
territoriale avrebbe erroneamente escluso la rilevanza dell’accertamento della
situazione economica della società di cui il S. era socio e liquidatore, in
quanto se avesse svolto l’accertamento richiesto avrebbe appurato che fin dalla
stipulazione del contratto il S. stesso aveva fornito tutti gli elementi per
potere valutare la situazione economica della società e l’entità della sua
partecipazione.
2) Con il secondo
motivo il ricorrente deduce la violazione dell’articolo 112 c.p.c. e
dell’articolo 1362 c.c., nonché difetto di motivazione censurando, sotto due
diversi profili, la qualificazione del comportamento della banca come esercizio
di diritto di recesso, invece che come dichiarazione di avvalersi di una
clausola risolutiva espressa.
Un primo profilo è
di natura processuale e con esso il ricorrente afferma che l’oggetto della controversia
devoluta alla cognizione del tribunale di Milano era l’accertamento della
validità e dell’efficacia delle dichiarazioni del marzo 1995 con le quali la
banca aveva inteso avvalersi della clausola risolutiva espressa prevista al
punto 7.03 del contratto. Erroneamente la Corte territoriale avrebbe affermato
che, per mero errore terminologico, sarebbe stata invocata la risoluzione,
richiamando a conferma della sua tesi che la banca non aveva neppure richiesto
il risarcimento dei danni, perché, al contrario, nelle conclusioni definitive
la banca stessa aveva chiesto la condanna del S. al pagamento della somma di 2
miliardi 680 milioni di lire …oltre ad interessi come per legge ed il
risarcimento del maggior danno ex articolo 1224, secondo comma c.c.».
In conseguenza
dell’erronea qualificazione della domanda la Corte territoriale avrebbe omesso
di pronunciare sulla domanda effettivamente proposta (di accertamento della
avvenuta risoluzione in virtù della dichiarazione di volersi avvalere della
clausola risolutiva espressa) e avrebbe pronunciato in relazione a una domanda
di accertamento della legittimità dell’esercizio del diritto di recesso che non
era stata proposta.
Dal punto di vista
sostanziale, prima di procedere a una diversa qualificazione delle
dichiarazioni della banca del marzo 1995, la Corte territoriale avrebbe dovuto
valutare che non solo la banca stessa aveva manifestato la sua intenzione di
risolvere il contratto, ma aveva esposto con precisione i presupposti richiesti
dalla legge per richiedere la risoluzione e che avrebbero quindi dovuto essere
esposte le ragioni per le quali sarebbero stati erronei i termini utilizzati. A
tal fine non sarebbe stato sufficiente il richiamo alla circostanza che in
giudizio non era stato chiesto il risarcimento dei danni, perché tale
circostanza, come già rilevato, sarebbe erronea in punto di fatto.
3) Il motivo, che
in ordine logico, deve essere esaminato per primo è infondato.
Quanto al profilo
che investe questioni di natura processuale, deve osservarsi che la questione
da esaminare non è quella di vedere se, in astratto, la domanda di accertamento
della legittimità del ricorso alla clausola risolutiva espressa sia diversa da
quella in cui si chieda l’accertamento della legittimità dell’esercizio del
diritto di recesso, ma di verificare se sia corretta l’affermazione della Corte
territoriale secondo la quale i termini oggettivi della controversia non erano
mai mutati. In proposito il giudice del merito ha accertato che con la domanda
introduttiva del giudizio il S. ha affermato che gli atti con i quali la banca
aveva posto fine al rapporto erano legittimi e che ha chiesto che il giudice
accertasse tale illegittimità. Se tale accertamento è corretto, come lo stesso
ricorrente non contesta, la questione se il comportamento della banca dovesse
qualificarsi come utilizzazione della clausola risolutiva o esercizio del
potere di recesso non è effettivamente tale da comportare imputazione dei fatti
dedotti, ma attiene alla qualificazione giuridica dei fatti dedotti, la quale
non può che essere riservata al giudice del merito, salvo il controllo della
sufficienza e della correttezza della motivazione, sulla quale non vengono
mosse, sostanzialmente, specifiche censure.
Quanto poi alla
correttezza della qualificazione operata dalla Corte territoriale, dal punto di
vista sostanziale, deve rilevarsi che la sentenza impugnata ha dato adeguata e
corretta spiegazione delle ragioni che l’hanno indotta a ritenere che nella
specie la banca avesse esercitato il potere di recesso previsto dal contratto.
In senso contrario
non può richiamarsi la circostanza che nelle conclusioni definitive del
giudizio di primo grado la banca ha chiesto la condanna del S. alla
restituzione della somma di 2 miliardi 680 milioni di lire, con gli interessi e
il risarcimento del maggior danno ex articolo 1224 c.c.. Quest’ultima
richiesta, infatti, è accessoria non all’accertamento dell’avvenuta risoluzione
del contratto, ma alla condanna alla restituzione del finanziamento e alla mora
nell’adempimento della relativa obbligazione pecuniaria.
4) È invece
fondato il primo motivo.
Il ricorrente, al
di là di alcuni profili che toccano aspetti marginali della qualificazione
giuridica del comportamento della banca in termini di esercizio del diritto di
recesso, con il motivo in esame, sostanzialmente non contesta la correttezza di
tale qualificazione, ma pone una questione fondamentale, e cioè se sia corretta
l’affermazione della Corte territoriale secondo cui l’esercizio del diritto di
recesso dal contratto di apertura di credito a tempo determinato, in presenza
di una circostanza (inesattezza della dichiarazione del S. di non essere socio
di società di persone) considerata dalle parti come ipotesi tipica di giusta
causa, precluda ogni valutazione diversa da quella del semplice riscontro
obiettivo della sussistenza o non della circostanza stessa.
Nell’affrontare
tale questione è necessario premettere che l’articolo 1845 (terzo comma) c.c.
consente alle parti del contratto di apertura di credito a tempo indeterminato
di recedere in qualsiasi momento dal rapporto, con il solo obbligo di darne
preavviso alla controparte entro un termine che, se non diversamente stabilito
dal contratto o dagli usi, lo stesso codice fissa in quindici giorni. La stessa
disposizione (al primo e secondo comma) prevede invece che, nel caso di apertura
di credito a tempo determinato, la banca non può recedere prima della scadenza
se non per giusta causa, concedendo al cliente un termine di quindici giorni
per la restituzione delle somme utilizzate e dei relativi accessori. La norma
prevede altresì espressamente che le parti possano convenzionalmente derogare
alla necessità della giusta causa ed è pacifico che sia derogabile anche il
termine di quindici giorni per la restituzione.
Nella specie è
pacifico che il contratto di cui si tratta era a tempo determinato e pertanto
la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione dei principi normativi ora
indicati, quando ha affermato che, come le parti hanno facoltà di derogare alla
necessità della giusta causa del recesso, così possono tipizzare le circostanze
che legittimano l’esercizio del diritto potestativo di recesso da parte della
banca.
Resta tuttavia da
accertare se, non ostante l’esercizio dell’autonomia contrattuale, che, giova
sottolinearlo, non ha derogato alla regola della necessità della giusta causa,
ma si è limitata a prevederne alcune (ma non tutte) ipotesi tipiche, le
modalità di esercizio del diritto di recesso sia o non sindacabile.
Ora, questa Corte
(sentenza 4538/1997) ha già avuto modo di esprimersi in ordine ad analogo
problema, affermando che, sia con riferimento a fattispecie di apertura di
credito a tempo indeterminato, che con riferimento ad ipotesi di contratto a
tempo determinato nel quale le parti abbiano previsto la deroga alla necessità
della giusta causa, non può ritenersi che il modo di esercizio del diritto
potestativo di recesso da parte della banca sia assolutamente insindacabile,
perché deve pur sempre rispettarsi il fondamentale e inderogabile principio
secondo il quale il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (articolo
1375 c.c.). Alla stregua di tale principio non può escludersi che, anche se
parzialmente consentito in difetto di giusta causa, il recesso di una banca dal
rapporto di apertura di credito sia da considerare illegittimo, ove in concreto
esso assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari; connotati tali, cioè,
da contrastare con la ragionevole aspettativa di chi, in base ai comportamenti
usualmente tenuti dalla banca ed all’assoluta normalità commerciale dei
rapporti in atto, abbia fatto conto di poter disporre della provvista
creditizia per il tempo previsto e non potrebbe perciò pretendersi sia pronto
in qualsiasi momento alla restituzione delle somme utilizzate, se non a patto
di svuotare le ragioni stesse per le quali un’apertura di credito viene
normalmente convenuta. La verifica, in concreto, dell’eventuale contrarietà a
buona fede del recesso – non diversamente, d’altronde, da quella in ordine
all’esistenza di una giusta causa, ove la legittimità del recesso sia da questa
condizionata – è rimessa al giudice di merito, la cui valutazione al riguardo,
se sorretta da congrua e logica motivazione, si sottrae al sindacato della
cassazione.
Tali principi non
possono non valere, a maggior ragione, nell’ipotesi in cui le parti non abbiano
derogato alla previsione della necessità della giusta causa, che, come è stato
autorevolmente osservato, costituisce una sorta di antidopo all’abuso del
diritto.
Né, sarebbe quasi
inutile aggiungerlo, a diverse conclusioni si deve prevenire per il semplice fatto
che le parti abbiano voluto circoscrivere i margini di accertamento giudiziale
della sussistenza della giusta causa, tipizzandone alcune fattispecie, perché,
nel regolamento di interessi convenuto, resta fermo che le parti hanno ribadito
l’esigenza che il potere di recesso sia esercitato solo in presenza di
situazioni che determinano una menomazione della fiducia posta a base del
rapporto contrattuale. Peraltro il sindacato sulla conformità dell’esercizio
del potere di recesso al principio di buona fede non ha, come paventato
infondatamente dalla Corte territoriale, per effetto la sostituzione della
regola negoziale con una regola giudiziale, con il conseguente stravolgimento
dell’economia del contratto, attenendo tale sindacato non alla validità della
clausola, che è data per presupposta, ma al comportamento esecutivo. Infatti,
come è stato in altra occasione affermato (sentenza n. 2503 del 1991) in tema
di esecuzione del contratto la buona fede si atteggia come un impegno od
obbligo di solidarietà, che impone a ciascuna parte di tenere quei
comportamenti che, a prescindere da specifici obblighi contrattuali e dal
dovere extracontrattuale del neminem laedere, senza rappresentare un
apprezzabile sacrificio a suo carico, siano idonei a preservare gli interessi
dell’altra parte.
Alla stregua dei
principi affermati da questa Corte, dai quali non v’è ragione di discostarsi,
non è irrilevante l’indagine che il ricorrente ha sollecitato circa l’eventuale
conoscenza, fin dal momento della stipulazione del contratto, da parte della
banca, della sua partecipazione alla società (omissis), in
liquidazione e della reale situazione economica della società stessa. Del pari
dovrà essere apprezzato il tempo trascorso dal conseguimento di tale conoscenza
all’esercizio del recesso, nonché tutte le altre circostanze di fatto rilevanti
ai fini dell’applicazione del principio di diritto che deve essere formulato
nei seguenti termini: "Alla stregua del principio secondo cui il contratto
deve essere eseguito secondo buona fede (articolo 1375 c.c.), il giudice deve
accertare che il recesso di una banca dal rapporto di apertura di credito a
tempo determinato, in presenza di una giusta causa tipizzata dalle parti del
rapporto contrattuale, non sia esercitato con modalità del tutto impreviste ed
arbitrarie, tali da contrastare con la ragionevole aspettativa di chi, in base
ai rapporti usualmente tenuti dalla banca ed all’assoluta normalità commerciale
dei rapporti in atto, abbia fatto conto di poter disporre della provvista
redditizia per il tempo previsto e che non può pretendersi essere pronto in
qualsiasi momento alla restituzione delle somme utilizzate".
Il giudice del
rinvio, che si designa in altra sezione della Corte d’appello di Milano,
provvederà anche sulle spese di questo giudizio.
PER
QUESTI MOTIVI
la Corte rigetta
il secondo motivo e accoglie il primo, cassa la sentenza impugnata in relazione
al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, ad altra sezione della Corte
d’appello di Milano.