Cassazione Civile, sentenza
n. 9636 del 16 luglio 2001
"CONTRATTO PRELIMINARE DI COMPRAVENDITA - DOMANDA DI
RIDUZIONE DEL PREZZO O ELIMINAZIONE DEI VIZI - CUMULO CON LA DOMANDA DI
ESECUZIONE SPECIFICA EX ART. 2932 COD. CIV."
(Sezione Seconda Civile - Presidente F. Pontorieri - Relatore S.
Del Core)
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato in data 10 giugno 1986, P., quali
eredi di P. V., esponendo quanto segue. Con convezione del 13 ottobre 1980, il
Comune di Civitavecchia concesse il diritto di superficie su area edificabile
di proprietà comunale, compresa nel piano di zona per la edilizia economica e
popolare, a P. V., titolare dell'omonima impresa di costruzioni, il quale si
obbligò a costruirvi due edifici e a trasferire il diritto di proprietà sugli
alloggi ricavati a soggetti aventi i requisiti richiesti dalla legge n.
1179/1965. Nella predetta convenzione, all'art. 9, fu stabilito il prezzo
massimo, di prima cessione degli alloggi (lire 292. 000 al mq.), suscettibile
di revisione per il 90%, secondo le indicazioni della Commissione Provinciale
Prezzi dal 4 maggio 1979, fino alla presentazione della domanda della
certificazione di abitabilità. Ottenute le concessioni edificatorie, l'impresa
P. realizzò i due edifici e, relativamente a unità immobiliari facenti parte di
uno di questi, sito in Civitavecchia, via Veneto 36, concluse con essi istanti
contratti preliminari in cui il prezzo venne provvisoriamente calcolato in lire
563. 700 al mq., rinviandone la determinazione definitiva a un futuro momento
deliberativo del Comune di Civitavecchia. Non essendo entrata in funzione la
Commissione Provinciale Prezzi, il Comune predetto, con delibera del 13
settembre 1983, dettò un criterio di revisione prezzi basato sulle variazioni
dell'indice ISTAT per il costo di costruzione di un fabbricato residenziale
registrate nello stesso periodo di riferimento. L'impresa P. rideterminò il
prezzo di cessione elevandolo a lire 706. 056 al metro quadrato, ma il Comune,
accertato dalle verifiche disposte che il prezzo risultante dalla revisione di
quello iniziale era di lire 660. 445,6 al mq., la invito a indicare tale cifra
negli atti di trasferimento. Ne sortì un contenzioso tra Comune e impresa, la
quale invi6 ai promissari acquirenti un estratto conto sulla base del prezzo revisionato
dall'amministrazione comunale, nel contempo avvertendoli che gli atti
definitivi avrebbero contenuto una clausola condizionale secondo cui, ove
1'autorità giudiziaria adita dalla stessa impresa ne avesse riconosciuto il
diritto di esigere il corrispettivo di lire 706. 056, sarebbero stati tenuti a
corrispondere le maggiori somme. Nel frattempo i fabbricati avevano iniziato ad
evidenziare, gravi difetti (distacco del rivestimento esterno, delle facciate,
con infiltrazioni d'acqua e di umidità in quasi tutte le unità abitative), ai
quali l'impresa, dopo una iniziale disponibilità, non aveva inteso porre
rimedio. Poiché, per evitare la decadenza del mutuo agevolato, era urgente
conseguire il trasferimento delle unità immobiliari, e avendo già corrisposto
il prezzo pattuito, gli istanti, con fatto introduttivo di cui in premessa,
invitarono i summenzionati eredi del P., frattanto deceduto, a presentarsi
avanti a un notaio per la stipula delle vendite, citandoli quindi avanti il
Tribunale di Civitavecchia, cui chiesero la pronuncia - di - una sentenza
sostitutiva dei non conclusi contratti di compravendita delle . . singole unità
immobiliari, alle condizioni precisate nei singoli compromessi, e la condanna
dei convenuti alla esecuzione delle opere atte a eliminare i vizi dei beni
venduti, ovvero, in difetto, al rimborso delle relative spese.
I convenuti, costituendosi in giudizio, eccepirono la nullità
della citazione sia per la sua atipicità, sia per il mancato rispetto del
termine a comparire, decorrente dalla data di convocazione davanti al notaio, e
l'inammissibilità della domanda per carenza di una situazione soggettiva
tutelabile. Dedussero, nel merito, che la mancata stipula dei rogiti andava
addebitata agli attori, i quali non avevano aderito al prezzo di lire 706. 056
al mq., oltre, opere di urbanizzazione, determinato dall'impresa venditrice in
base all'arte. 9 della convenzione del 1980 - da ritenersi ancora operante, non
essendo stata mai consentita dalle imprese interessate la modifica apportatavi
dal comune- e alla tabella 8 fissata con Decreto del Ministero dei lavori
pubblici 11 dicembre 1978, stante la sostituzione delle Commissioni Provinciali
con le Commissioni Regionali presso il Provveditorato generale alle Opere
Pubbliche. Contestarono l'esistenza di vizi imputabili al costruttore.
Domandarono in via riconvenzionale che il prezzo dovuto dai promittenti
acquirenti fosse determinato in lire 706. 056 al mq. e che gli attori fossero
condannati al pagamento della somma di lire 80.000.000 corrispondente agli
oneri di urbanizzazione.
Intervenne volontariamente in giudizio la Impresa P. s. a. s.
aderendo alle eccezioni c domande spiegate dai convenuti.
Con sentenza non definitiva del 24 giugno 1988 il tribunale adito,
respinte le eccezioni preliminari sollevate dai convenuti, trasferì agli attori
i diritti di superficie sulle unità immobiliari promesse in vendita alle
condizioni di cui alla domanda, rigettò la riconvenzionale, disponendo infine
la prosecuzione del giudizio in ordine alla richiesta relativa ai vizi.
Disposta e eseguita consulenza tecnica d'ufficio, il tribunale,
definitivamente pronunciando in data 8 gennaio 1992, condannò convenuti e
interveniente a eseguire entro sei mesi i lavori necessari all'eliminazione dei
vizi riscontrati o, in difetto, a rimborsare agli acquirenti la somma di lire
146. 152. 043.
Il successivo gravame prodotto dai soccombenti avverso le due
sentenze veniva rigettato dalla Corte d'appello di Roma. L'itinerario
argomentativo tracciato da detta pronuncia può cosi riassumersi. Nessuna
nullità poteva ravvisarsi nella citazione: era stato rispettato il termine per
comparire decorrente dalla notificazione e non certo dalla convocazione davanti
al notaio; sussisteva la situazione giuridica tutelabile già al momento della
instaurazione della lite; l'atto conteneva gli elementi essenziali richiesti
dalla legge. Priva di senso era l'eccezione di "inammissibilità"
della domanda, avendo gli attori dedotto la illegittimità della pretesa della
impresa P. di stipulare i definitivi, inserendovi alcune condizioni. Dalle
varie clausole del contratto preliminare si evinceva chiaramente che le parti -
attesa la difficoltà di revisionare il prezzo alla stregua della originaria
convenzione tra il Comune c l'impresa per essere cessata dalle sue funzioni la
Commissione Provinciale Prezzi- intesero rimettere al Comune, cui avrebbero
sottoposto i conteggi finali, la determinazione del prezzo definitivo della
vendita secondo lo schema dell'art. 1349 c.c. E ciò a prescindere da ogni ulteriore
convenzione tra impresa e Comune e dall'osservanza dei criteri revisionali di
cui al D. M. 11 dicembre 1978. Per giurisprudenza pacifica, in sede di giudizio
per il trasferimento del bene promesso in vendita può anche essere fatta valere
la garanzia per vizi. 'accertato distacco del rivestimento dell'edificio
rientrava tra i gravi difetti di cui all'art. 1669 c.c., trattandosi di opera
che, in quanto destinata a preservare le pareti esterne dall'azione degli
agenti atmosferici (in particolare dalle infiltrazioni d'acqua), incide sulla
struttura e sulla funzionalità del bene. Risultava dagli atti di causa che gli
appellati denunciarono all'impresa il distacco del rivestimento nel maggio -
giugno 1985. Peraltro, con lettera del 4 dicembre 1985, essi avevano
evidenziato che il fenomeno aveva assunto proporzioni tali da non poter essere
riparato con interventi parziali. Risalendo la citazione al 10 giugno 1986,
1'azione non era dunque prescritta poiché esercitata nell'anno dalla denunzia
del difetto. Essendo pacifico che l'impresa P. fosse costruttrice e venditrice
dell'immobile, non assumeva rilevanza la circostanza che la ditta fornitrice
dei pannelli esterni non ne avesse suggerito l'applicazione su rete metallica;
spettava alla impresa costruttrice individuare il sistema di applicazione
idoneo ad evitarne il distacco.
L'impresa P. s. a. s., P. G., P. A., P. G. e P. M. hanno chiesto
la cassazione della sopra compendiata sentenza articolando nove motivi.
Resistono con controricorso, poi illustrato da memoria, (omissis),
nonché (omissis), in qualità di eredi di M. G. .
Non hanno svolto attività difensiva in questa sede (omissis)
e inoltre (omissis) quali eredi di T. M.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, denunziando violazione degli artt. 125,163 c.p.c.
(360 n. 3 c.p.c.), i ricorrenti ribadiscono l'eccezione di nullità della
citazione in quanto recante l'invito a comparire davanti al notaio, in
contrasto con il contenuto tipico dell'atto in parola e con la sua stessa
funzione consistente nella vocatio in ius.
Il motivo è del tutte privo di fondamento.
La norma di cui all'art. 125 c.p.c. ha la funzione di indicare il
44contenuto minimo" dei pia importanti atti di parte scritti del processo.
Le indicazioni di questa disposizione devono essere integrati con quelle
previste per i singoli atti processuali. Per la citazione, l'art. 163 c.p.c.
prescrive la presenza nell'atto di vari elementi, alcuni determinanti l'oggetto
della domanda (editio actionis), altri aventi la funzione di instaurare il
contraddittorio con colui o con coloro nei cui confronti la domanda proposta
(profilo c. d. della vocatio in ius). Soltanto la mancanza di taluni dei
requisiti (minimi e particolari) combinatoriamente prescritti dalle
disposizioni citate può dar luogo a nullità dell'atto introduttivo, non certo
la presenza di elementi ultronei (quale quello enucleato dai ricorrenti) ed
estranei al suo contenuto paradigmatico. In ogni caso, la tesi del ricorrente
rivela tutta la sua inconsistenza sotto altro ben più dirimente profilo. A
termini dell'art. 156 c.p.c., in nessun caso un atto può essere dichiarato
nullo se ha raggiunto lo scopo, inteso come funzione tecnica e pratica
assegnatagli nel sistema processuale. E poiché scopo della citazione deve
ritenersi la vocatio in ius, nella specie esso è stato perfettamente raggiunto
stante la costituzione in giudizio dei convenuti. Senza dire che un tale evento
avrebbe in ogni caso sanato ogni eventuale vizio relativo alla vocatio a
termini dell'art. 164, comma secondo, c.p.c.previgente.
Con il secondo motivo, denunciando nullità della citazione per
assegnazione di un termine a comparire inferiore a quello fissato dall'art. 163
bis c.p.c., i ricorrenti ribattono la tesi che il computo di quel termine
doveva decorrere dalla data di comparizione davanti al notaio, per la stipula
del rogito, contenuta nel libello introduttivo. Solo con la scadenza di tale
data, venuta meno la possibilità di una definizione stragiudiziale della
controversia, divenne certa "la prosecuzione del giudizio e la citazione
svol(se) in modo pieno la propria funzione di atto di vocatio in ius".
Il motivo è platealmente inconsistente sia per le ragioni esposte
nella sentenza impugnata (il termine a comparire decorre dalla data della
notificazione dell'atto di citazione a quella, in esso fissata, per la
comparizione davanti al giudice, mentre rimaneva irrilevante, al fine del
computo del suddetto termine, che prima dell'udienza fissata nell'atto di
citazione parte convenuta fosse stata "invitata a comparire" davanti
al notaio per la stipula del rogito) sia, anche qui, per il ben più dirimente
profilo che qualunque eventuale (ma insussistente) vizio della vocatio è
rimasto sanato ex nunc dalla costituzione dei convenuti secondo il disposto
dell'art. 164, comma 2, c.p.c.(testo anteriore).
Con il terzo motivo si denunzia testualmente "omessa o
insufficiente motivazione in ordine alla lamentata inammissibilità della
domanda" (art. 360 n. 5 c.p.c.).
Gli stessi ricorrenti ammettono l'improprietà dell'aggettivazione
adottata per indicare il vizio che a loro dire inficerebbe la domanda attorea,
potendosi in generale parlare di inammissibilità della domanda quando essa
incorre in determinate preclusioni previste dall'ordinamento. A parte ciò, essi
si dolgono - almeno a quanto è dato di capire, data la scarsa perspicuità e le
venature vagamente sofistiche caratterizzanti il mezzo- non tanto dei profili
valutativi attinenti alle questioni strettamente merituali nelle quali
dichiaratamente entrano coi restanti motivi (vedi l'incipit del quarto mezzo di
ricorso), quanto del fatto, pur sempre inquadrato nell'orbita delle questioni
preliminari (del premerito, potrebbe dirsi), che nulla è detto in sentenza in
ordine alla efficacia di giudicato che un'eventuale decisione, nella causa tra
il Comune e l'impresa, favorevole alla pretesa di quest'ultima di vendere ad un
determinato prezzo avrebbe potuto svolgere anche nei confronti dei promissari
acquirenti.
Siffatta doglianza è del tutto infondata. Una volta denegatasi (in
prime cure) la chiesta sospensione del giudizio in attesa della definizione
della controversia avviata dall'impresa P. nei confronti del Comune di
Civitavecchia, non si riesce a comprendere di quale ipotetica o virtuale
decisione potenzialmente dotata di efficacia di giudicato la corte di merito
avrebbe dovuto tenere conto nel decidere la controversia sottoposta al suo
esame.
Sia detto infine, per debito di ragione, che qualunque altro
contenuto i ricorrenti avessero inteso dare alla doglianza, poiché non
precedentemente messo in luce coi motivi d'appello, configurerebbe questione
nuova inammissibile in questa sede.
Col quarto motivo di ricorso, si denunziano violazione e falsa
applicazione degli artt. 1362, 1363, 1366, 1367 e 1349 c.c. nonché omessa,
insufficiente e contraddittoria motivazione (art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.). Si
censura la conclusione cui è giunta la corte territoriale secondo la quale i
contraenti vollero affidare la determinazione del prezzo di cessione al Comune
di Civitavecchia, quale equo arbitratore. L'interpretazione sarebbe erronea
perché la corte capitolina: ha fatto esclusivo riferimento al criterio
letterale, incentrando la propria decisione intorno alla previsione, in verità
formulata in modo infelice, di definizione del prezzo "a seguito del pronunciamento
comunale"; per di pia, non attribuendo alle parole il senso loro proprio,
ha dato alla suddetta espressione il significato di "a seguito della
determinazione unilaterale dell'A.C." Attraverso l'uso della parola
"pronunciamento", le parti intendevano in realtà riferirsi alla
risposta ad un quesito precedentemente formulato. Se avessero inteso demandare
al Comune la determinazione unilaterale del prezzo, avrebbero certamente usato
un termine o una formula diversa e meno ambigua. Ogni eventuale, residuo dubbio
sarebbe stato fugato rispettando le previsioni dell'art. 1362 c.c., che impone
di indagare la comune intenzione delle parti "valutando il loro
comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del
contratto", dell'art. 1363 c.c., che impone di interpretare le clausole
del contratto "le une per mezzo delle altre, attribuendo a ciascuna di
esse il senso che risulta dal complesso dell'atto" e dell'art. 1366 c.c.,
che prescrive di interpretare il contratto secondo buona fede. La corte, poi,
non ha attenzionato il contenuto della previsione della lettera N) in cui si
legge che l'impresa ha richiesto la soluzione dei dubbi direttamente
all'amministrazione comunale con lettera del 13.12.1982, rimasta senza
risposta. Ne avrebbe inferito che, nell'intenzione delle parti, l'oggetto del
"pronunciamento" riguardava i numerosi chiarimenti richiesti
dall'impresa, tra cui quello in ordine alle modalità di revisione del prezzo,
in base alla convenzione vigente. Peraltro, il successivo paragrafo dell'art. 6
prevedeva la possibilità di una ulteriore revisione del prezzo di vendita. Se
le parti avessero voluto demandare al Comune il potere di determinare
unilateralmente il prezzo di vendita, sfuggirebbe il significato della
previsione di una convenzione integrativa, giustificabile soltanto nel
presupposto che la decisione dell'amministrazione comunale non dovesse
determinare il prezzo di vendita ma solo individuare i criteri tecnici per il
relativo calcolo. Anche il comportamento del Comune e dell'impresa avrebbe dovuto
essere oggetto di valutazione. L'ente territoriale non si era mai comportato
come un terzo al quale fosse stata demandata la determinazione unilaterale, e
secondo equità, del prezzo. L'impresa insorse immediatamente contro la cifra
indicata dal Comune, convenendolo in giudizio per l'accertamento del diritto,
in base alla convenzione, di applicare il prezzo da essa calcolato.
L'interpretazione sostenuta dalla corte viola il principio di buona fede (1366
c.c.), in quanto contraria alla doverosa schiettezza che deve ispirare i
rapporti contrattuali; è evidente infatti che il prezzo di cessione degli
immobili in grado di meglio contemperare gli opposti interessi di acquirente e
venditore non poteva che essere quello determinato dalla convenzione.
E' opportuno far precedere l'esame del complesso motivo, che
costituisce, per così dire, il "cuore" del ricorso, da una rassegna
dei principi costantemente affermati da questa Corte Suprema in terna di
interpretazione dei contratti e dai corollari che possono ulteriormente
trarsene.
In generale, è principio costantemente affermato da questa Corte
quello per cui le regole legali di ermeneutica contrattuale sono elencate negli
artt. 1362 - 1371 c.c. secondo un ordine gerarchico: conseguenza immediata è
che le nonne cosiddette strettamente interpretative, dettate dagli artt. 1362 -
1365, precedono quelle cosiddette interpretative integrative, esposte dagli
artt. 1366 - 1371 c.c. e ne escludono la concreta operatività quando la loro
applicazione renda palese la comune volontà dei contraenti. Da questo principio
di ordinazione gerarchica delle regole ermeneutiche, nel cui ambito il criterio
primario è quello esposto dal primo comma dell'art. 1362 c.c., vale a dire il
criterio dell'interpretazione letterale, consegue ulteriormente che qualora il
giudice del merito abbia ritenuto che il senso letterale delle espressioni
impiegate dagli stipulanti riveli con chiarezza ed univocità la loro volontà
comune, cosi che non sussistano residue ragioni di divergenza tra il tenore letterale
del negozio e l'intento effettivo dei contraenti, l'operazione ermeneutica deve
ritenersi utilmente compiuta. Ai criteri interpretativi sussidiari si deve far
ricorso solo quando i criteri principali (significato letterale delle
espressioni adoperate dai contraenti, collegamento logico tra le varie
clausole) siano insufficienti alla identificazione della comune intenzione
stessa (cfr., e plurimis, sentt. nn. 4671/2000,13351/1999, 8584/1999,
4811/1998, 1940/1998, 5715/1997, 2372/1996, 5893/1996, 4563/1995, 3963/1993).
In tema di interpretazione del contratto, 1'accertamento della
volontà dei contraenti in relazione al contenuto del negozio si traduce in una
indagine di fatto, affidata al. giudice del merito e censurabile in sede di
legittimità solo nei casi di inadeguatezza della motivazione, tale da non
consentire la ricostruzione dell'iter logico seguito per giungere alla
decisione, ovvero di violazione dei canoni legali di interpretazione
contrattuale stabiliti dagli artt. 1362
ss. c.c.
Sia la denuncia della violazione delle regole di ermeneutica che
la denuncia del vizio di motivazione esigono una specifica indicazione, e cioè
la precisazione del modo attraverso il quale si è realizzata la violazione
anzidetta e delle ragioni dell'obiettiva deficienza e contraddittorietà del
ragionamento del giudice, non potendo le censure risolversi, in contrasto con
la qualificazione loro attribuita dalla parte ricorrente, nella mera
contrapposizione, di un'interpretazione diversa da quella criticata (vedi Cass.
nn. 1886/2000, 1225/2000, 1045/2000, 4832/1998, 3142/1998, 2190/1998,
1192/1998, 12652/1997, 11334/1997, 3623/1996, 2008/1996, 1092/1995, 551/1995).
In diversi termini, l'interpretazione del contratto è riservata al giudice del
merito, le cui valutazioni soggiacciono, in sede di legittimità, a un sindacato
che è limitato alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica
contrattuale e al riscontro di una motivazione coerente e logica. Per sottrarsi
al sindacato di legittimità, quella data dal giudice al contratto non deve
essere 1'unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una
delle possibili, e plausibili, interpretazioni. Sicché, quando di una clausola
contrattuale sono possibili due o pia interpretazioni (plausibili), non è consentito
- alla parte che aveva proposto l'interpretazione poi disattesa dal giudice di
merito - dolersi in sede di legittimità del fatto che sia stata privilegiata
l'altra. Specularmente, il vizio di motivazione deve emergere dall'esame del
ragionamento e degli argomenti svolti dal giudice nel merito e non dalla
possibilità di un diverso significato attribuibile al contratto. In buona
sostanza, il vizio motivatorio non deve impingere l'apprezzamento del
significato delle clausole del contratto, ma solo la coerenza formale, ossia
l'equilibrio dei vari elementi che costituiscono la struttura argomentativa.
Nella specie, la corte del mento ha osservato che nei vari
contratti preliminari 1'argornento del prezzo e della sua revisione è trattato
al punto N) della premessa e all'art. 6. Al punto N) si prevede che il
promissario acquirente, dato atto all'impresa di essersi attivata richiedendo
al Comune la liquidazione definitiva del prezzo, debba accollarsi i maggiori
oneri ed il maggior prezzo "che potranno emergere in sede di stipula
dell'atto pubblico di trasferimento in conseguenza del pronunciamento comunale
da far risultare con un'eventuale ulteriore convenzione in rettifica ed in
aggiunta delle precedenti". All'art. 6, dopo il calcolo provvisorio della
revisione del prezzo base di vendita (lire 292. 000 al mq.) limitatamente al
periodo 1° maggio 1979 - 30 settembre 1992, si prevede che "come già
indicato al punto N) della premessa, il prezzo complessivo di vendita verrà
definito a seguito del pronunciamento dell'Amministrazione Comunale alla quale
verranno sottoposti i conteggi definitivi".
Attenendosi al tenore testuale delle due clausole, sia il
tribunale sia la corte territoriale hanno ritenuto che le parti intesero
rimettere al Comune la determinazione del prezzo definitivo secondo lo schema
dell'art. 1349 c.c. e che l'ente territoriale, in risposta alla richiesta
dell'impresa, deliberò in data 13 settembre 1983 di modificare l'art. 9 della
convenzione stabilendo in seguito che il prezzo definitivo era quello (lire
660. 445,6 al mq.) calcolato (da soggetti all'uopo incaricati) mediante
1'applicazione degli indici ISTAT per il settore dell'edilizia residenziale e
quindi in base a criteri assolutamente obiettivi ed affidabili.
Ha escluso in particolare la corte romana che la determinazione
ultima del prezzo fosse dal preliminare correlata o subordinata a una nuova
convenzione tra impresa e Comune. Proprio il richiamo al punto N) della
premessa del contratto - ha spiegato il giudice del merito - chiarisce quale
sia stata la volontà delle parti, in quanto in essa si richiamano le
convenzioni stipulate dall'impresa con il Comune - tra le quali quella relativa
all'adozione dei criteri revisionali di cui al D. M. 11 dicembre 1978 - e si
afferma che, mancando sufficiente chiarezza "in ordine, soprattutto alla
liquidazione e pagamento definitivo del prezzo", questo sarebbe stato
comunque quello determinato dall'amministrazione comunale. Soltanto in via di
eventualità, tale determinazione sarebbe risultata in una ulteriore convenzione
in rettifica ed aggiunta delle precedenti. Le parti, cioè, in presenza della
difficoltà di stabilire il prezzo revisionato secondo la convenzione tra il
Comune e l'impresa per essere cessata dalle sue funzioni la Commissione
Provinciale Prezzi ivi indicata allo scopo di fissare i parametri revisionali,
hanno demandato al Comune la determinazione della prestazione, secondo lo
schema di cui all'art. 1349 c.c., a prescindere da ogni ulteriore, convenzione
tra impresa e Comune e dall'osservanza dei criteri rettificativi di cui al D.
M. 11 dicembre 1978.
Trattasi, all'evidenza, di opzione ermeneutica rigorosamente
basata sul tenore letterale delle clausole, intrinsecamente plausibile c
sorretta da catena argomentativa priva di smagliature logiche.
Di contro, i ricorrenti, mentre ammettono che la corte del merito
"sembra aver incentrato la propria decisione intorno alla previsione, in
verità formulata in modo infelice, di definizione del prezzo a seguito del
pronunciamento comunale", rilevano che "alla suddetta espressione è
stato attribuito il significato di designazione del Comune quale equo
arbitratore, al quale era demandata la determinazione del prezzo di
vendita"; lamentano che "è stato, in sostanza, fatto esclusivo
riferimento, al criterio letterale".
Per essi sarebbe di tutta evidenza che attraverso l'uso della
parola "pronunciamento" si intendeva fare riferimento non a una
determinazione unilaterale del prezzo da parte del Comune, bensì a una verifica
di carattere eminentemente tecnico, operata sulla base dei criteri indicati
nella convenzione stipulata con l'impresa concessionaria, in risposta ad un
quesito da questa rivolto al predetto ente sulle modalità revisionali del
prezzo. Al Comune, dovevano infatti essere previamente "sottoposti per
l'approvazione i conteggi definitivi", ovverosia i calcoli eseguiti per la
determinazione del prezzo definitivo di prima cessione di ciascun alloggio. Se
le parti avessero inteso demandare al Comune la determinazione unilaterale del
prezzo avrebbero certamente usato un termine o una formula diversa c meno
ambigua (per esempio: "il prezzo sarà determinato dall'A.C. ai sensi
dell'art. 1349 C. C.") e non avrebbero previsto la possibilità di una
successiva revisione del prezzo di vendita, conseguente a una "eventuale
ulteriore convenzione in rettifica ed aggiunta delle precedenti";
previsione che, ove le parti avessero demandato al Comune il potere, di
determinare unilateralmente il prezzo di vendita, sarebbe rimasta priva di
effetto alcuno, non comprendendosi altrimenti quale potesse essere la funzione
di una convenzione integrativa.
Richiamando il contenuto di altre clausole, i ricorrenti
sottolineano che nulla si dice in ordine alla determinazione del prezzo ad
opera del Comune, laddove viene rimarcato che il promissario riconosceva non
essere pia il prezzo di cessione, originariamente indicato in convenzione,
rispondente alla situazione del mercato edilizio.
Come risulta in maniera evidente dalla sua stessa prospettazione,
la doglianza dei ricorrenti non concretizza una violazione di legge ma
rappresenta il tentativo di sostituire il criterio interpretativo seguito dalla
corte con altro più confacente alla loro tesi difensiva.
Addirittura azzardando una disquisizione etimologica sul termine
"pronunciamento" adottato dai paciscenti, i ricorrenti, in ultima
analisi, ripropongono la loro interpretazione della clausola contrattuale,
indicando come violata, anzitutto, la norma contenuta nell'art. 1362 c.c. In
tale deduzione è tuttavia insito l'errore di non considerare che, come si è
dianzi premesso, allorquando di una clausola contrattuale sono possibili due
interpretazioni (com'è, palesemente, nel caso concreto), non è consentito -
alla parte che aveva proposto quella poi disattesa dal giudice di merito - dolersi
in sede di legittimità del fatto che sia stata privilegiata l'altra (pur
possibile) interpretazione.
L'indagine esperita dai giudici del merito appare invece non solo
rispettosa delle regole poste dagli artt. 1362 e 1363 c.c., ma altresì idonea
ad assicurare compiutezza di rilievi e di argomenti all'iter logico seguito per
giungere alle conclusioni contestate dai ricorrenti; ai quali, poi, non giova
invocare il disposto degli artt. 1362, comma 2, che prevede la valutazione del
comportamento complessivo delle parti, 1363, il quale codifica il principio
della totalità ermeneutica, e 1367 c.c., che si ispira al principio di
conservazione del contratto in caso di clausola dubbia. I criteri previsti
dalle suddette norme sono, invero, caratterizzati da una funzione ermeneutica
esclusivamente vicariante, che serve a esplicare una volontà espressa da una
dichiarazione ambigua e plurivoca, come tale inidonea a rispecchiare la comune
intenzione delle parti. Sicché quante volte l'effettiva volontà dei contraenti
risulti, come nella specie, determinata e determinabile attraverso l'adozione
della regola ermeneutica prioritaria, quale è quella (art. 1362, comma 1, c.c.)
fondata sul significato letterale delle parole, all'interprete non è dato
ricorrere, in assenza di residui margini di dubbio, agli altri strumenti
interpretativi meramente sussidiari indicati dallo stesso art. 1362 (comma 2) e
dalle altre disposizioni successive, superando il senso fatto palese dal
significato letterale delle parole.
Considerazioni non dissimili valgono per quanto riguarda la
dedotta violazione dell'art. 1'66 c.c., che impone l'interpretazione del
contratto secondo buona fede: tale principio, rappresentando un punto di sutura
tra la ricerca della reale volontà contrattuale, costituente il primo momento
del processo interpretativo, ed il persistere del dubbio sul preciso contenuto
della stessa, in base ad un criterio obiettivo, avente per fondamento un canone
di reciproca lealtà di condotta fra le parti, è pur sempre un mezzo sussidiario
di interpretazione, al quale il giudice deve ricorrere solo se persista un
dubbio sul reale significato delle dichiarazioni contrattuali; esso non è
invocabile allorché il giudice stesso, attraverso il preminente criterio
dell'interpretazione letterale, abbia accertato, come nella specie, l'effettiva
volontà delle parti (vedi Cass. nn. 5663/1984, 2209/1984, 70/1979, 1695/1976,
1418/1975, 3058/1973).
E, del resto, come l'interpretazione della volontà delle parti in
relazione al contenuto di un contratto, o di una qualsiasi clausola negoziale,
importa indagini o valutazioni di fatto affidate al potere discrezionale del
giudice del merito, insindacabile in sede di legittimità, ove non sussista un
vizio di attività dello stesso, influente sulla logicità, congruità e
compiutezza della motivazione, cosi rientra in tale potere l'accertamento
relativo alla chiarezza delle clausole contrattuali e, in definitiva, alla
necessità di procedere all'uso di strumenti interpretativi sussidiari, quali
sono quelli dinanzi menzionati.
Per quanto, poi, attiene all'altro aspetto, cioè quello della
adeguatezza della motivazione, giova considerare che 1'identificazione del
punto (o dei punti) oggetto della lacuna lamentata non può essere rimessa alla
Corte, esprimendo genericamente la doglianza di motivazione viziata, ma, in
considerazione del principio di autosufficienza del ricorso e del carattere
limitato del mezzo di impugnazione, è onere della parte ricorrente; a
quest'ultima incombe, dunque, di indicare quali siano le circostanze e gli
elementi rispetto ai quali invoca il controllo di logicità sub specie
dell'apprezzamento della "causalità dell'errore", scilicet della
decisività di tali circostanze (vedi Cass. n. 5656/1986).
Valutata alla stregua di siffatte prospettazioni, le censure
svolte dai ricorrenti in punto di motivazione si palesano del tutto inidonee a
individuare i "vizi della motivazione" della sentenza impugnata;
lungi dal porre in luce punti "decisivi", in ordine ai quali la
motivazione sarebbe stata omessa o insufficiente o contraddittoria, esse si
sostanziano nella delineazione di un'interpretazione delle clausole possibile,
ma inammissibilmente contrapposta a quella operata dalla corte territoriale e
in un soggettivo e autonomo ordine di considerazioni ed apprezzamenti (ad
esempio sul rilievo ermeneutico da dare alla previsione dell'ulteriore
convenzione da stipulare tra comune e impresa, nonché sull'implausibilità di
una modifica unilaterale della convenzione originaria) circa 1'iter logico
seguito dal giudice a quo per pervenire al suo convincimento, esposto
esaurientemente e con proposizioni internamente e reciprocamente coerenti, che
hanno tenuto conto, confutandole, di tutte le obiezioni mosse dagli appellanti
alla scelta ermeneutica operata dal tribunale e fatta propria dalla corte
medesima. Per nulla decisivo, anzi oggettivamente insignificante, è poi
l'errore di motivazione in cui sarebbe incorsa la corte capitolina
nell'indicare il soggetto il quale, su incarico del Comune di Civitavecchia,
effettuò il conteggio del prezzo in base alle variazioni dei costi per
l'edilizia residenziale rilevati dall'ISTAT.
Concludendo l'esame del motivo, constata la Corte come i
ricorrenti si limitino, con censure inammissibili circa il mancato rispetto da
parte del giudice del merito di determinati canoni interpretativi legali, a
proporre in argomento una interpretazione diversa da quella accolta da detto
giudice, sostenendo - secondo una loro personale, opinabile logica - trattarsi
dell'unica possibile. Ciò che non balta, evidentemente, a dimostrare che
l'altra, seguita dal giudice del merito, sia viziata, tanto più perché questa
risulta basata sulla formulazione letterale delle clausole contrattuali, nel
rispetto quindi del primo e fondamentale criterio di cui all'art. 1362 c.c.,
che, come si è detto, quando siano chiare e inequivoche tanto le parole e le
espressioni adoperate quanto lo scopo perseguito (la intima ratio), mette fuori
causa tutti gli altri criteri, meramente sussidiari. E' di tutta evidenza,
quindi che siffatte critiche vanno tenute per assolutamente inconsistenti alla
stregua dei principi più sopra esposti.
Deducendo apparentemente vizi di motivazione, i ricorrenti - senza
allegare in contrario, come trascurate, circostanze decisive, tali cioè da
indurre, se valutate, a una diversa soluzione giuridica della controversia -
prospettano, in realtà, una propria interpretazione del contratto, in
opposizione a quella operata dal giudice di merito, così inammissibilmente
sollecitando un riesame del merito della causa, sulla premessa di una pretesa
erroneità della conclusione, implicita nella sentenza impugnata ma non per
questo meno chiara, secondo cui, non potendosi applicare la convenzione
originaria, le parti in buona sostanza vollero che l'ultima parola toccasse al
Comune.
Con il quinto motivo si denunziano "violazione di norme di
diritto in relazione alla ammissibilità dell'azione di garanzia per i vizi
della cosa" nonché vizio della motivazione (art. 360 n. 5 c.p.c.). Per i
ricorrenti, osta all'esperimento dell'azione il mancato trasferimento della
proprietà degli immobili; avendo il contratto preliminare natura meramente
obbligatoria, non sono ad esso estensibili, nemmeno analogicamente, mancando
1'identità di ratio, le azioni a tutela dell'acquirente implicanti il
perfezionamento di un contratto ad effetti reali e il motivo in esame è
destituito di fondamento.
Va premesso che, in effetti, in terna di tutela del promissario
acquirente cui venga consegnato un immobile con vizi o difformità non v'è
stata, nel tempo, univoca risposta giurisprudenziale.
Secondo un orientamento più risalente (Cass. nn. 4081/1968,
222/1973 e 6730/1982), talora riaffiorato in qualche recente decisione (Cass.
nn. 118/1992 e 2613/1999) postasi in contrasto con le Sezioni Unite intervenute
(sent. n. 1720/1985) a dirimere il contrasto giurisprudenziale già registratosi
in materia, alla promessa di compravendita non sono applicabili le norme sulla
garanzia per vizi e difetti della cosa, che si riferiscono soltanto alla
vendita e presuppongono, quindi, il trasferimento del bene, per cui il
promittente acquirente, nel caso di difformità, ha di fronte la rigida
alternativa fra risoluzione o esecuzione specifica del contratto preliminare
negli stessi esatti termini in cui era stato stipulato.
In contrapposizione a tale orientamento, se ne è delineato un
altro che, pur ricollegandosi al più generale principio affermato dalle Sezioni
Unite a favore dell'esperibilità, da parte del promissario acquirente,
dell'azione di riduzione del prezzo, riconduce tuttavia tale azione all'ambito
di previsione e di disciplina di cui all'art. 1492 c.c. ; esclude,
conseguentemente, che il medesimo promissario possa promuovere, in alternativa
all'actio quanti minoris, un'azione di esatto adempimento per ottenere l'eliminazione
di vizi o difformità del bene promesso in vendita, essendo siffatto rimedio
estraneo alla garanzia per i vizi e in nessun modo congeniale alla natura e
alla struttura della compravendita e del corrispondente contratto preliminare
(Cass. nn. 9991/1994 e 1296/2000). Si sostiene a riguardo che la disciplina dei
vizi dettata dall'art. 1492 c.c., applicabile anche al contratto preliminare di
compravendita, prevede come azione alternativa alla risoluzione soltanto
l'azione di riduzione del prezzo, con esclusione, anche in concorso della colpa
del venditore, dell'azione di esatto adempimento e della correlativa eccezione
di inesatto adempimento., consistendo l'obbligazione principale del venditore
in un "dare", costui, una volta adempiutovi con la consegna della
cosa, non può essere costretto ad un "facere" per eliminare gli
eventuali vizi esistenti, ma può soggiacere soltanto alla risoluzione del
contratto o, alternativamente, alla riduzione del prezzo, salva diversa
pattuizione.
La maggioritaria e più recente giurisprudenza di questa Corte, cui
il Collegio intende dare continuità, si muove nel solco tracciato dalle Sezioni
Unite con la sentenza sopra citata in direzione di un potenziamento degli
strumenti di tutela contrattuale del promissario acquirente. Secondo tale
giurisprudenza, nel giudizio di esecuzione specifica dell'obbligo a contrarre
derivante da preliminare, "puro" o "complesso" che sia, di
vendita di immobile che venga consegnato con vizi e difformità non
concretizzanti aliud pro alio ma incidenti esclusivamente sul suo valore o su
secondarie modalità di godimento, il promissario acquirente, se non vuole agire
per la risoluzione del contratto preliminare, non è vincolato ad accettare il
bene senza riserve cosi com'è, ma può esperire, anche cumulativamente
all'azione di adempimento in forma specifica dell'obbligo di concludere il
contratto definitivo, l'azione di accertamento dei vizi e difformità, chiedendo
la condanna del promittente venditore alla loro eliminazione in forma specifica
o per equivalente (mediante riduzione del prezzo di acquisto dovutogli o
obbligo di sopportare la spesa necessaria). Ciò in quanto il particolare
rimedio offerto dal citato art. 2932 c.c. non esaurisce la tutela della parte
adempiente, secondo i principi generali delle obbligazioni e segnatamente dei
contratti a prestazioni corrispettive (e indipendentemente, quindi, dalla
garanzia specifica prevista per il compratore), sicché una pronuncia del
giudice, che tenga luogo del contratto non concluso, fissando un prezzo
inferiore a quello pattuito con il preliminare o condannando il promittente
acquirente a eliminare i vizi, configura un legittimo intervento
riequilibrativo delle contrapposte prestazioni, rivolto ad assicurare che
l'interesse del promissario alla sostanziale conservazione degli impegni
assunti non sia eluso da fatti ascrivibili al promittente (cfr. sentt. nn.
4478/1976, 3560/1977, 2679/1980, 6671/1981, 1720/1985, pronunciata a Sezioni
Unite, 8220/1987, 6143/1988, 11126/1990, 4895/1993, 8200/1993, 5615/1996,
9560/1997, 3679/1999, 5121/2000, 15958/2000).
L'opposto indirizzo giurisprudenziale, nella prima delle versioni
sopra riportate, si basa su due argomenti tra loro complementari: si sostiene
innanzitutto che 1'azione estimatoria è collegata alla garanzia per vizi e -,.
difetti e questa è inapplicabile al preliminare di vendita, attenendo sempre e
comunque alla vendita definitiva; si fa riferimento, poi, al c. d. principio
della intangibilità del preliminare da parte della sentenza costitutiva ex art.
2932 c.c., limitandosi cioè la tutela costitutiva alla fissazione, in via
definitiva, degli effetti già predisposti con il preliminare.
Orbene quest'ultimo principio, lungi dal rappresentare un ostacolo
all'accoglimento di una nozione più ampia di "rimedio specifico",
giustifica . . esattamente la tesi opposta perché il rigoroso rispetto della
volontà espressa dalle parti in sede di preliminare esige che la sentenza
costitutiva si faccia carico anche di risolvere i problemi di equilibrio tra le
prestazioni eventualmente sopravvenuti nelle more. L'argomento della
giurisprudenza contraria è in altre parole ribaltabile a favore del
promissario. Proprio consentendo al promittente un illimitato potere di
modificare ad arbitrio la propria prestazione reale, ferma restando quella
formale di prestare il proprio consenso alla stipula del definitivo, si
otterrebbe il risultato di dare a quest'ultimo contratto un contenuto
sostanzialmente diverso dal preliminare. In realtà il principio secondo il
quale la sentenza deve riprodurre il contenuto del contratto preliminare si
spiega nel senso che il giudice non può, in mancanza di sufficienti elementi
del preliminare che consentano di determinare la volontà negoziale, sostituirsi
alla parte inadempiente e perfezionare in tal modo il contratto definitivo. Ma
quando è la stessa situazione di squilibrio fra le prestazioni, determinata
dalla presenza di vizi nel bene, ad esigere un adeguamento del sinallagma
(effettuato tra l'altro, con riferimento al rapporto proporzionale di valore
tra bene e prezzo nell'ambito della contrattazione preliminare), non s'incontra
alcun ostacolo all'ammissibilità di una pronuncia, accessoria a quella
sostitutiva del consenso, che ristabilisca l'equilibrio contrattuale. E la
riduzione del prezzo, a fronte di un bene viziato o difforme, può essere uno
strumento per riequilibrare i termini dello scambio e per far si che la volontà
espressa dai contraenti nel preliminare sia fedelmente riprodotta, negli stessi
termini qualitativi e quantitativi, al momento della stipula del definitivo.
Esattamente viene evidenziato che nella norma (art. 2932 c.c.) non c'è alcuna
prescrizione, né espressa né tacita, di necessaria ripetizione nella sentenza
costitutiva dello stesso contenuto precettivo fissato con il contratto
preliminare. Una regola di rigida corrispondenza non si trova neppure nel 2'
comma della norma in questione, perché anche qui è prevista solo l'offerta
della prestazione che spiega 1'azione, ma non si stabilisce la misura della
prestazione stessa.
Non trova giustificazione, conseguentemente, neanche il primo
argomento contrario (formulato pure dagli odierni ricorrenti) secondo cui la
quanti minoris è inapplicabile, al preliminare in quanto prevista solo per la
vendita. perfetta e non per la promessa di vendita. Invero, nella prospettiva
delineata, il rimedio della riduzione del prezzo, peraltro, non esclusivo del
contratto di compravendita, non è quello correlato a tale fattispecie
giuridica, avendo la più generale valenza di strumento sussidiario della sentenza
costitutiva prevista dall'art. 2932 e. c. Detta norma, se non si pone
nell'alveo della vera e propria esecuzione forzata degli obblighi di fare -
implicanti l'emissione di una sentenza di condanna - risponde al principio
generale della coercibilità dei comportamenti obbligatori, che costituisce
l'oggetto di tutto il sistema delle norme speciali dell'esecuzione forzata in,
forma specifica (sezione II del libro sesto del codice civile) in cui risulta
collocata. Il comune denominatore di tale sistema è la regola angolare
dell'adattamento dell'esecuzione alla situazione reale al fine di assicurare,
al creditore la stessa prestazione alla quale aveva diritto. Nel disporre la
riduzione del prezzo, non si attua quindi un obbligo di garanzia, e più in particolare
l'obbligo di garanzia previsto dalle nonne sulla vendita (la domanda di
esecuzione specifica Mn potendo comprendere azioni che nascono dal contratto
non ancora costituito), ma si tende ad assicurare in via esecutiva l'esatto
adempimento della prestazione, ovverosia il trasferimento di quel determinato
bene cosi come era stato individuato ed apprezzato dalle parti. E' solo
apparente, e costituisce un fatto di esclusiva rilevanza economica, l'entità
contenutistica che si verifica tra 1'azione di riduzione di prezzo -
esercitabile, in sede di esecuzione forzata, dal promissario allo scopo di fare
adattare la sentenza costitutiva alla reale situazione di fatto - e la quanti
minoris della vendita perfetta. Questa presuppone che l'interessato abbia già
acquisito la proprietà ed è mirata a fargli conseguire un quid pluris rispetto
al perfezionamento dello scambio, mentre nell'azione di specie il promissario
tende proprio ad ottenere la soddisfazione del suo interesse al trasferimento.
Dalla pertinenza della quanti minoris al solo contratto di vendita
perfetto non si può pertanto dedurre la conseguenza che non spetti al
promissario la tutela per le difformità della cosa approntata dal promittente;
ciò in quanto 1'azione che egli esercita in sede di esecuzione specifica è
quella, nettamente diversa e derivante dalle regole generale dei contratti, di
tutela delle obbligazioni ordinarie di un ordinario contratto obbligatorio,
recante la nota peculiare della prestazione del consenso al trasferimento, che
tuttavia si pone alla stessa stregua di una normale obbligazione di fare
conclusiva del rapporto originato dal contratto.
Sempre nella prospettiva data, un ulteriore strumento
riequilibrativo delle contrapposte prestazioni fissate nel preliminare potrebbe
essere rappresentato dall'azione di esatto adempimento, comportante la condanna
del promittente ad eliminare vizi o difformità, da esperire cumulativamente
all'azione ex art. 2932 c.c. e in alternativa alla richiesta di ridurre il
prezzo globale in misura proporzionale al valore delle difformità. Un rimedio
siffatto - previsto nel solo caso dell'appalto (art. 1668 c.c.) - è escluso
nella vendita di cosa specifica per il fatto che, consistendo l'obbligazione
fondamentale del venditore in un dare, costui, una volta adempiutovi con la
consegna della cosa, non può essere costretto ad un facere per eliminare gli
eventuali vizi esistenti ma può soggiacere soltanto alla risoluzione del
contratto o, alternativamente, alla riduzione del prezzo, salvo, ovviamente,
che non sia diversamente pattuito. Dalle decisioni iscrivibili nel secondo dei
filoni giurisprudenziali sopra riportati si è inferita l'esclusione di tale
azione nel caso del corrispondente contratto preliminare, non potendosi
affidare il riequilibrio delle prestazioni a rimedi estranei e in nessun modo
congeniali alla natura e alla struttura della compravendita (vedi, soprattutto,
Cass. n. 9991/1994 cit.).
Ma muovendo da un'ottica che non limiti l'ambito dei rimedi
esperibili in sede di preliminare a quelli previsti per il corrispondente
contratto definitivo, prevalendo l'aspetto programmatico-obbligatorio
riguardante il trasferimento del bene nella consistenza e con le
caratteristiche promesse, un tale ostacolo non ha ragione di sussistere, onde
il rimedio specifico di cui all'art. 2932 c.c. potrebbe implicare anche
l'eventuale condanna del promittente ad un facere. La tesi contraria tende
inammissibilmente a omologare il preliminare al contratto di vendita;
viceversa, è la normativa applicabile al contratto preparatorio che deve
circoscrivere ed influenzare il mezzo di attuazione coatta dell'elemento
obbligatorio finale.
Come già accennato, la sede in cui tali domande
"diverse" di tutela troverebbero collocazione è pur sempre quella di
un giudizio di esecuzione specifica dell'obbligo di contrarre a determinate
condizioni che, ove nelle more modificatesi o speculativamente modificate dal
promittente, devono essere ridefinite e rimodulate affinché acquistino lo
stesso valore dato loro dalle parti al momento di stipulare il contratto
preliminare. In altre parole, appare corretto ritenere che la tutela
costitutiva di cui all'art. 2932 c.c., normativamente inquadrata tra le ipotesi
di esecuzione forzata in forma specifica, possa attingere a contenuti
sostanziali di tutela (quali la riduzione del prezzo o la condanna del
promittente venditore a eliminare i vizi della cosa promessa in vendita) non
necessariamente tratti dalla disciplina legale del corrispondente contratto
definitivo, dovendo essere finalizzati alla produzione di effetti
sostanzialmente e non solo formalmente conformi a quelli voluti e predisposti
dalle parti. L'impegno traslativo assunto con il preliminare - che, come è
stato sostenuto da acuta dottrina, sta sempre più assumendo l'aspetto di un
comune e atipico contratto obbligatorio, con cui le parti si promettono
prestazioni più che consensi, si da legittimare una tutela equiparata a quella
di un qualsiasi contratto definitivo e richiede che il bene che ne costituisce
l'oggetto sia trasferito in modo conforme alle previsioni e senza vizi, sicché,
in alternativa, il giudice dovrebbe provvedere, quando accoglie la domanda di
esecuzione specifica, a che i termini dell'esecuzione siano uguali a quelli
dell'impegno. L'identità strutturale della cosa consegnata rispetto a quella
pattuita deve dunque costituire il metro di riferimento per il giudice
investito dalla richiesta di esecuzione specifica ex art. 2932 c.c., non
potendo egli operare il trasferimento di un bene diverso da quello pattuito. II
negare la possibilità di inserire nel giudizio di esecuzione in forma specifica
dell'obbligo di concludere il contratto, e nell'ambito di una tutela
conservativa, domande (di riduzione del prezzo, di condanna dell'alienante
all'eliminazione dei vizi e delle difformità della cosa a sue spese) diverse da
quella tipica principale volta a conseguire l'effetto traslativo rivelerebbe
una contraddizione del sistema che, per assicurare la piena attuazione del fine
dello scambio della cosa, ha addirittura superato il principio dell'incoercibilità
del consenso. Peraltro, tra le forme di reazione all'inadempimento dovrebbero
sempre essere privilegiate quelle dirette a conservare l'operazione negoziale
nella valenza economica che questa aveva per la parte adempiente.
Si spiega in tal modo perché la tesi qui sostenuta non trovi
elementi di smentita neanche nella considerazione che essa porterebbe alla
conseguenza paradossale di attribuire alla promessa di vendita una tutela
(contro l'inadempimento) maggiore rispetto alla vendita definitiva, essendo
quest'ultima legata alla rigida alternativa della scelta tra la risoluzione del
contratto e la riduzione del prezzo (art. 1492 c.c.), alternativa cui invece
non è vincolata la promessa di vendita. A parte che la pretesa di eliminazione
di vizi della cosa può essere ammessa anche nella vendita perfetta, sub specie
di azione di risarcimento del danno in forma specifica (art. 2058 c.c.),
1'argomento è solo suggestive, perché in realtà il preliminare, a differenza
della vendita, non produce il trasferimento della proprietà ma solo vincoli
obbligatori ed è per questo esente dall'azione prevista dall'art. 1492 c.c.
Un'interpretazione restrittiva intesa a negare al promissario la
tutela in parola non potrebbe trarsi nemmeno dal testo dell'art. 2932 c.c., nel
quale non si rinviene alcuna previsione, espressa o implicita, che faccia
inclinare a una conclusione siffatta. Al contrario, tale disposizione si
impernia sulla possibilità di attuare coattivamente la prestazione del
consenso, con 1'unica forma sostitutiva munita di quella idoneità a produrre
"gli effetti" reali del contratto cui non potrebbe dare vita la sola
sentenza di condanna a prestare il consenso. E anche da vari esponenti della
dottrina, alla sentenza ex art. 2932 c.c. si assegna una funzione integrativa,
in ragione del fatto che le parti con il preliminare si sono riservate un
potere di completazione che viene esplicato, in via negoziale, con la
stipulazione del definitivo e, in via giudiziale, con la emand7-ione della
sentenza sostitutiva del consenso. Quest'ultima, non può quindi essere
considerata solo strumento di realizzazione (degli effetti) di un assetto di
interessi già preformulato ed intangibile, assumendo una connotazione esecutiva
correlata all'ovvia finalità di rispecchiare integralmente le previsioni
negoziali risultanti dal preliminare. Ciò consente di riconoscere al giudice,
nella prospettiva di conformare il contenuto della decisione al risultato cui
mira il precetto negoziale predisposto dalla volontà privata col contratto preliminare,
poteri che sono non solo di integrazione (ex artt. 1374 e 1349 c.c.) e di
adeguamento, in applicazione dei principi dell'impossibilità parziale
sopravvenuta, di cui agli artt. 1258 e 1464 c.c., ma anche di specificazione,
analoghi a quelli previsti anche per l'esecuzione forzata degli obblighi di
fare dall'art. 612 c.p.c.
Deve quindi ritenersi innucleato nel disposto dell'art. 2932 c.c.
un meccanismo volto ad evitare l'alterazione dell'equivalenza delle prestazioni
assunte dalle parti ad oggetto del programma precettivo. Diversamente opinando,
si finirebbe per utilizzare la norma proprio per vanificare le ragioni che
hanno portato alla mancata conclusione del contratto. L'esclusione di una
pronuncia accessoria di adattamento delle prestazioni del preliminare
consentirebbe infatti al promittente di determinare o modificare
unilateralmente la misura e la qualità della sua prestazione finale
sottraendosi cosi di fatto all'esecuzione specifica.
Le svolte considerazioni valgono altresì a fare giustizia della
tesi che limita l'esperibilità dell'azione di esatto adempimento alle ipotesi
di contratto preliminare ad effetti anticipati o a esecuzione anticipata. Si è
a volte posto infatti l'accento sul "trasferimento del godimento"
anticipato rispetto al trasferimento della proprietà, qualificandolo come un
"titolo diverso dalla vendita" per esigere l'esatta consegna e
fondando su di esso l'obbligo del promittente venditore ad eliminare i vizi,
obbligo d'altronde "distinto e separato da quello che è il contenuto della
garanzia per i vizi".
In realtà l'azionabilità di siffatto rimedio è stata dettata non
tanto dall'inadempimento del promittente venditore ad un obbligo di esatta
consegna (sembra in realtà di difficile configurazione un obbligo di consegna
(anticipata) del bene, che includa in sé anche l'obbligo della sua conformità
alle previsioni negoziali e legali) quanto dalla peculiarità della fattispecie
qualificata - oltreché dalla posizione professionale del venditore, che era
pure costruttore- anche dall'assunzione da parte del promittente dello
specifico obbligo, poi disatteso, di procedere a determinati lavori che
assicurassero la conformità del bene a certe caratteristiche (vedi sentt. nn.
4478/1976, 3560/1977,8220/1987, 6143/1988, 8200/1993).
I segni dell'erroneità di siffatta impostazione si avvertono già
nelle motivazioni delle meno recenti pronunce di questa Corte che hanno formato
l'indirizzo qui privilegiato (cfr. sentt. nn. 2679/1980, 6671/1981, 1932/1982,
3263/1983 e, soprattutto, la più volte citata n. 1720/1985 delle Sezioni
Unite), le quali, pur adottando le soluzioni proposte dalle precedenti
decisioni, le hanno però svincolate dalla distinzione tra preliminare complesso
e preliminare cosiddetto puro. Si è convincentemente sottolineato che, se al
conseguimento del godimento anticipato di un bene, prima del definitivo
contratto di vendita, si può assegnare una funzione di controllo e di verifica
in ordine alla corrispondenza del bene alle caratteristiche legali e
convenzionali, a tale situatone di fatto non può tuttavia essere ricondotto il
fondamento giuridico di una tutela contrattuale ampliata ad altri rimedi. Si è
cosi giunti ad affermare che nel contratto preliminare di vendita, non
necessariamente ad effetti anticipati, quando la cosa risulti difforme dalla
pattuizione, il promissario può, in sede di esecuzione specifica dell'obbligo
di contrarre, chiedere o il riequilibrio delle prestazioni, tramite la
riduzione del prezzo (attuata facendo riferimento al rapporto proporzionale tra
prezzo globale e valore delle difformità) o l'eliminazione della difformità,
tramite 1'azione di esatto adempimento. L'esperibilità di tali rimedi,
correlati alla dedotta variazione quantitativa o qualitativa della cosa
promessa, è stata in sostanza ricondotta all'inadempimento di una specifica
obbligazione, assunta dal promittente venditore, di trasferire il bene con le
caratteristiche pattuite, a prescindere dal fatto che sia stata effettuata -
una consegna anticipata del bene.
D'altronde, non si vede quale differenza concreta, sul piano
dell'esigenza di assicurare adeguati rimedi riequilibratori, possa ravvisarsi
tra la violazione dell'obbligazione di facere insita nel contratto preliminare
- che, per il particolare connotato soggettivo del rapporto nel quale il promittente
venditore è un costruttore, preveda la consegna anticipata della res con
determinate caratteristiche- e la violazione dell'obbligazione di astenersi da
apportare o fare apportare modificazioni alla cosa promessa in vendita,
nell'ipotesi ordinaria del preliminare. E' infatti indubbio che dal contratto
preliminare c.d. puro sorge a carico del promittente venditore un'obbligazione
articolata che lo impegna a prestare il consenso e, quindi, a trasferire una
cosa corrispondente a quella apprezzata dal promittente acquirente nonché ad
astenersi dall'apportarvi modifiche e a impedire, usando la comune diligenza,
modificazioni provenienti da fatti esterni o da terzi; in una parola, ad
approntare i mezzi necessari per garantire 1'identità tra prestazione preparatoria
e prestazione finale.
In conclusione, sulla scia della giurisprudenza maggioritaria, si
ribadisce che, in materia di esecuzione in forma specifica dell'obbligo di
concludere un contratto, la sentenza costitutiva del consenso di cui all'art.
2932 c.c., tendendo ad assicurare gli effetti del contratto non concluso quali
effettivamente previsti e voluti dalle parti al momento della stipula del
preliminare, può rivelarsi rimedio non esaustivo sotto l'aspetto
ripristinatorio di un tale assetto di interessi, che rimanga alterato nel
periodo intermedio tra il predetto momento e la stipula del contratto
definitivo. In tal caso, con il rimedio costitutivo possono coesistere pronunce
accessorie che assicurino pienezza di tutela al promissario. In particolare,
nell'ipotesi di preliminare di vendita di un immobile, le diseconomie
eventualmente conseguenti al successivo insorgere di vizi o difformità possono
essere corrette proponendo, congiuntamente alla domanda di cui all'art. 2932
c.c., anche le domande accessorie di riduzione del prezzo pattuito, solo
contenutisticamente uguale alla quanti minoris prevista per la vendita già
perfezionata (la cui disciplina in tema di garanzia per i vizi ed evizione
costituisce cioè solo il referente normativo alla cui stregua valutare i
contenuti dell'impegno assunto dal promittente venditore in via meramente
preliminare), o, in alternativa, quella di condanna del promittente venditore,
all'eliminazione delle difformità, correttamente quindi ritenuta proponibile
nella specie dal giudice di seconde cure. Inoltre, l'ammissibilità tanto
dell'azione di riduzione del prezzo quanto di quella di esatto adempimento,
quali rimedi di carattere generale previsti per i contratti a prestazioni
corrispettive a salvaguardia dell'equilibrio sinallagmatico, va ricondotta alla
violazione dell'impegno traslativo assunto dal promittente venditore col
preliminare, costituente la sola fonte dei diritti e degli obblighi
contrattuali delle parti; violazione che di per se, a prescindere dalla sussistenza
o meno di specifiche obbligazioni finalizzate alla consegna del bene o comunque
al suo approntamento secondo precise modalità, esige che il bene oggetto
dell'impegno sia trasferito in conformità delle previsioni e senza vizi.
Con il sesto motivo si deducono violazione e falsa applicazione di
legge in relazione all'applicazione dell'art. 1669 c.c. nonché omessa o
insufficiente motivazione (art. 360 n. 3 c.p.c.). La sentenza ha esteso
arbitrariamente alla vendita una nonna (l'art. 1669 c.c.) propria della
disciplina dell'appalto. In ogni caso, nella specie, il vizio costituito dal
distacco di parti del rivestimento dell'edificio non era certamente di natura
tale da impedire significativamente il godimento dell'immobile. La sentenza,
affermando apoditticamente che il distacco del rivestimento accessorio incide
necessariamente sulla struttura e la funzionalità del bene, omette ogni
considerazione in ordine alle dimensioni del fenomeno.
Entrambe le censure in cui risulta articolato il motivo risultano
infondate.
Emerge da tutti gli atti di causa che l'impresa P. era
costruttrice, c venditrice dell'immobile. Per consolidata giurisprudenza di
questa Corte, il venditore di unità immobiliari che ne curi direttamente la
costruzione, ancorché i lavori siano appaltati ad un terzo, risponde dei gravi
difetti ai sensi dell'art. 1669 c.c. mi confronti degli acquirenti,
indipendentemente dall'identificazione del contratto con essi intercorso, a
titolo di responsabilità extracontrattuale, essendo la relativa disciplina di
ordine pubblico (cfr., e plurimis, sentt. nn. 3146/1998, 12106/1998, 7619/1997,
8109/1997, 1081/1995, 12304/1993, 11450/1992, 2805/1990, 1618/1987).
Riguardo all'altro profilo di doglianza, considerate, che il
rivestimento esterno dell'edificio è destinato a preservare le pareti
dall'azione degli agenti atmosferici (in particolare dalle infiltrazioni
d'acqua), la corte del merito ha conseguentemente ravvisato nel distacco anche
parziale di tale protezione un vizio che incide gravemente sulla conservazione
del fabbricato e sulla sua destinazione d'uso, provocandone inevitabilmente il
progressivo deterioramento. Dati i fatti come sopra accertati, la decisione
risulta ineccepibile. Non v'è dubbio, infatti, che tra i gravi difetti di
costruzione, per i quali è operante a carico dell'appaltatore la garanzia
prevista dall'art. 1669 c.c., rientrano le infiltrazioni d'acqua determinate da
carenze della impermeabilizzazione perché incidono sulla, funzionalità
dell'opera menomandone il godimento (cfr. Cass. nn. 117/2000, 2260/1998,
13112/1992, 9082/1991, 2431/1986). il rilievo di apoditticità che viene mosso
alla (motivazione della) sentenza si attaglia piuttosto alla censura.
Con il settimo motivo si denunziano testualmente "violazione
e falsa applicazione di diritto in relazione alla negazione della prescrizione
del diritto - vizio della motivazione (artt. 1667, 1668, 360 nn. 3 e 5
c.p.c.)". Pur applicando 1'art. 1669 c.c., si sarebbe dovuta dichiarare la
prescrizione giacché la citazione fu notificata il 10 giugno 1986 e la
denuncia, come risulta dalla stessa sentenza, può essere fatta risalire sino al
maggio 1985, cioè oltre un anno prima dall'esercizio dell'azione.
Il motivo è del tutto infondato.
Anzitutto la sentenza colloca temporalmente la denuncia non, con
precisione, nel mese di maggio 1985 ma tra i mesi di maggio e giugno 1985. Ciò
fa concludere per la tempestività dell'azione, essendo stata la citazione
notificata il 10 giugno 1986. Ma vi è di più: avendo i promissari acquirenti
comunicato all'impresa costruttrice, con la lettera del 4 dicembre 1985, che il
fenomeno aveva assunto proporzioni tali da non poter essere riparato con
parziali interventi, la corte del merito ha osservato che, data la natura del
difetto, appare ragionevole che essi ne abbiano compreso l'importanza quando si
è manifestato in modo eclatante. Sicché è da tale momento che andava fatto
decorrere il termine prescrizionale. Contro tale ratio decidendi, da sola
idonea a sorreggere le raggiunte conclusioni circa la tempestività dell'azione
(avendo ravvisato la formale "denunzia" dei vizi nel giorno in cui i
committenti conseguirono un apprezzabile grado di conoscenza obiettiva della
gravità dei difetti e della loro derivazione causale da imperfetta esecuzione
dell'opera), i ricorrenti nulla oppongono.
L'ottavo motivo è enunciato come "violazione di norme di
diritto in relazione alla asserita irrilevanza delle istruzioni fornite dal
produttore per l'applicazione del collante". In contrasto con la sua
intitolazione, palesemente incompleta, non essendo indicate né deducibili le
norme di diritto asseritamente violate, si denuncia difetto di motivazione sul
punto riportato tra virgolette. La corte romana non ha valutato la
responsabilità dell'impresa con riferimento a quello che era lo stato dell'arte
al momento in cui il lavoro era stato fatto. La colpa dell'impresa avrebbe
potuto essere affermata solo laddove si fosse accertato che le modalità di
utilizzazione del collante, consigliate dal produttore - ovverosia il soggetto
più competente a conoscere le caratteristiche del prodotto - ed adottate
dall'impresa, non fossero state conformi alla regola dell'arte già all'epoca
dell'esecuzione dei lavori. Limitandosi ad accertare la difformità tra tecnica
utilizzata e tecnica indicata dal consulente tecnico, la corte di appello, ha,
di fatto, imputato al debitore la mancata applicazione anticipata della regola
dell'arte, che sarebbe stata conseguenza del successivo miglioramento della
tecnica e dello sviluppo della nuova metodologia dell'applicazione su rete
metallica.
Anche con tale censura i ricorrenti travisano il contenuto della
motivazione, dalla quale si deduce che il vizio riscontrato dal consulente
tecnico d'ufficio consiste nella carente applicazione dei pannelli di
rivestimento, per la mancanza in più punti di collante. La colpa quindi appare
affermata dal giudice del merito innanzi tutto a causa di una ridotta e
insufficiente utilizzazione di collante.
In ogni caso, come bene osserva la corte del merito, non assume
rilevanza, in tale contesto, la circostanza che la ditta fornitrice del
materiale non avesse suggerito 1'applicazione dei pannelli su rete metallica.
Spettava alla impresa costruttrice di individuare il sistema più opportuno per
l'applicazione dei pannelli, in modo da evitarne il distacco.
A seguire i ricorrenti, l'onere della prova liberatoria a carico
del costruttore sarebbe limitato alla sola dimostrazione che lo stesso
costruttore avesse usato tutta la diligenza possibile sia nella scelta dei
materiali sia nella esecuzione dell'opera.
Al contrario, è principio da tempo acquisito alla giurisprudenza
di questa Suprema Corte che la presunzione semplice di responsabilità del
costruttore posta dall'art. 1669 c.c. per la rovina o per il pericolo di rovina
dell'opera o per altro grave difetto costruttivo che si manifestino nel corso
di dieci anni dal compimento dell'opera stessa può dirsi vinta non è con la
prova dell'essere stata da lui usata tutta la diligenza possibile nella scelta
dei materiali e nella esecuzione dell'opera, bensì mediante la specifica
dimostrazione della mancanza di una sua responsabilità, conclamata da fatti
positivi, precisi c concordanti (cfr. sentt. nn. 2922/1960, 3550/1969,
2123/1991). Se poi il ricorrente intende solo sostenere che l'impegno
necessario per la verifica del materiale superava, appunto, i limiti della
diligenza media, ancora una volta la censura in esame deve essere disattesa a
causa della sua estrema genericità, affidata, come essa è, ad enunciazioni
teoriche prive di ogni riferimento a precisi elementi di prova circa le
verifiche compiute e gli accertamenti eseguiti.
Nei gravi difetti delle costruzioni che danno luogo alla garanzia
prevista dall'art. 1669 e. c. sono, poi, comprese sia le deficienze costruttive
vere e proprie, quelle che, cioè, si risolvono nella realizzazione dell'opera
con materiali inidonei o non a regola d'arte, sia le carenze riconducibili ad
erronee previsioni progettuali (cfr. le sentenze di questa S. C. n. 1948 del
1989 e n. 5252 del 1986). Qualsiasi grave difetto che si manifesti nell'opera
entro i dieci anni successivi al suo compimento e il cui prodursi non sia
imputabile al fatto dell'acquirente o del terzo deve dunque essere qualificato
come difetto costruttivo di cui è responsabile in via presuntiva l'esecutore
dell'opera stessa, salva la rigorosa prova liberatoria che egli ha l'onere di
fornire nei termini sopra specificati. Prova che nella specie i ricorrenti non
hanno neanche dedotto di avere fornito, limitandosi a formulare la
considerazione, del tutto inconferente per quanto detto (oltre che non
supportata dall'indicazione in ricorso del dato processuale da cui la
circostanza si dovrebbe desumere), che l'applicazione dei pannelli esterni fu
effettuata secondo lo stato della tecnica del tempo.
Con il nono e ultimo motivo, denunciandosi "nullità della
sentenza - omissione di pronuncia", si sostiene che la sentenza non ha
esaminato il motivo di appello con cui era stata chiesta la riforma della
sentenza anche per non avere riconosciuto ai convenuti appellanti il diritto di
richiedere il controvalore delle opere di urbanizzazione, stimate in lire
80.000.000.
Anche tale motivo segue la sorte dei precedenti.
Come affermato da questa Corte, ad integrare gli estremi del vizio
di omessa pronuncia non basta la mancanza di una espressa statuizione del
giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento
che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto; il che non si
verifica quando la decisione adottata in contrasto con la pretesa fatta valere
dalla parte comporti il rigetto di tale pretesa anche se manchi in proposito
una specifica argomentazione (cfr. Cass. nn. 4317/2000, 1798/1997, 5783/1989).
Orbene, avendo i giudici di appello rigettato l'impugnazione
sull'essenziale rilievo che l'unico criterio di revisione del prezzo era quello
indicato dal Comune di Civitavecchia, hanno con ciò statuito implicitamente e
in senso negativo anche sul motivo, concernente la riconvenzionale, con cui gli
appellanti, rifacendosi invece ai parametri revisionali previsti dal D. M. 11
dicembre 1978, avevano ribadito la pretesa di condanna degli attori al
pagamento dell'importo delle opere di urbanizzazione nella misura di lire
80.000.000.
In considerazione di tutto quanto precede, il ricorso deve essere
respinto.
Ricorrono giusti motivi per la totale compensazione tra le parti
delle spese del presente grado del giudizio.
PER QUESTI MOTIVI
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese