Diritto, interessi umani e tempo.

Pierluigi Milite

 

Il finito è il solo modo di essere dell’infinito” (1). Spazio e tempo sono irrinunciabili misure di ogni attività umana. Il compimento di un atto si colloca necessariamente nello spazio e nel tempo. Nel campo giuridico a fronte della dimensione spaziale, quella temporale ha un maggior ambito di applicazione, giacchè essa può essere riferita non solo agli atti nella loro materialità, ma anche agli effetti giuridici di essi, venendo così a contraddistinguere modificazioni di ordine ideale oltre che reale (2). Più in generale, il fenomeno giuridico non ha alcun significato, se non con riferimento ad un tempo determinato sia pur genericamente: le esigenze pratiche (di risoluzione di conflitti di interessi e di qualificazione di comportamenti umani) alla base del mondo giuridico, ne hanno imposto la costruzione come un sistema coerente di fatti e di effetti, in cui ciascuna modificazione di esso ha rilievo in quanto si riflette su altri fatti ed effetti. La catena causale della effettualità giuridica è del tutto ininterrotta e coerente. Sicchè un fenomeno giuridico atemporale sarebbe una contraddizione in termini (3). Non si dà giuridicità, se non partecipando al necessario succedersi di cause (fatti) ed effetti giuridici e l’inserimento in questo succedersi presuppone necessariamente una collocazione temporale: un fatto o un effetto tale da non poter essere collocato, nemmeno approssimativamente, in una dimensione temporale è del tutto irrilevante per il diritto.

Con ciò non si vuol dire che ogni fenomeno giuridico debba avere una data e cioè un riferimento preciso ad un giorno del calendario, ma piuttosto, che esso deve sempre poter essere collocato nel tempo (4) o meglio che le indicazioni temporali ad esso relative, seppur generiche, debbono essere tali da consentire un giudizio (relativo) di priorità o di posteriorità rispetto ad altri fenomeni giuridici. La atemporalità di un fatto giuridico relega, dunque, tale fatto nel campo dell’indifferente o dell’irrilevante giuridico, collocandolo al di fuori del campo del diritto (5). Il tempo degli atti e degli effetti giuridici non si presta tuttavia ad essere inteso come fatto autonomamente rilevante per il diritto (6). Il momento o il periodo del tempo giuridicamente rilevanti appaiono sempre strettamente ed inseparabilmente collegati con un interesse umano ed è questo ad essere punto di riferimento della tutela giuridica. Le norme con le loro previsioni generali ed astratte e gli atti di autonomia svolgentisi nell’ambito del sistema, dicono se e come i collegamenti degli interessi umani col tempo siano meritevoli di protezione (7).

Abbiamo visto come la dimensione temporale sia aspetto indefettibile di ogni fenomeno giuridico. Il legislatore nel perseguire le esigenze proprie dell’ordinamento disciplina il tempo degli atti e degli effetti (8). Limitando l’analisi all’area dell’attività negoziale, è da rilevare come attorno alla produzione e allo svolgimento degli effetti negoziali possano concentrarsi diversi ordini di interessi (individuale o collettivo, privato o pubblico, etc.), a che gli effetti stessi o gli atti da essi legittimati (adempimento dell’obbligazione, esercizio dei diritti di credito o reali, etc.) si verifichino in un tempo diverso da quello previsto, dal legislatore e cioè dal tempo immediatamente successivo alla stipulazione dell’atto giuridico, che ne costituisce la fonte (artt.1183 e 1376 c.c.). Tali interessi, sempre parte di interessi più ampi, ove ritenuti rilevanti all’ordinamento giuridico sono oggetto e ragione di tutela e si traducono nelle norme che, derogando al regime (effetto naturale) risultante da norme dispositive o suppletive, disciplinano il funzionamento del “termine”. E’ a questo punto opportuno operare, nell’ambito dell’attività negoziale, una distinzione tra le nozioni di “tempo” e “termine”. Con la prima si verrebbe a designare la dimensione temporale, che accompagna in ogni caso gli atti e gli effetti (9) e rispetto alla quale dovrebbe risultare evidente, come non avrebbe ragione di porsi un problema di “accidentalità”, ma solo di “naturalità”; con la seconda nozione si farebbe invece unicamente riferimento al distacco temporale dell’effetto rispetto alla causa (o della realizzazione dell’effetto rispetto al suo prodursi), ovvero alla delimitazione nel tempo dell’effetto (o della sua realizzazione nel tempo), in guisa che il termine identifichi quel particolare momento o periodo del tempo (10) interesse alla produzione dell’effetto (o alla sua realizzazione). Ad una prima generica astrazione, quindi,  nello svolgimento dell’attività negoziale la nozione di “termine” viene a designare una particolare specificazione della più ampia nozione di “tempo”: è il tempo dell’effetto negoziale (o della sua realizzazione), che, nella sua duplice dimensione (distanza (11) e delimitazione), non coincide con il tempo che individua il negozio (o il prodursi dell’effetto) (12).

 

NOTE

 

(1) Satta, Il giorno del giudizio, Milano, 1971 p. 158.

 

(2) La distinzione tra tempo dell’atto e tempo dell’effetto potrà apparire pleonastica a chi fosse portato ad osservare, che anche il tempo riferito agli effetti di un atto è in relatà riferito alle azioni materiali da quegli effetti consentite, onde si tornerebbe alla dimensione temporale dell’atto. Senonchè la distinzione non è priva di ragione, ove si rifletta sul fatto; che non sempre gli effetti giuridici costituiscono il preludio di azioni materiali, potendovi essere effetti che, almeno direttamente, si risolvono in mere modificazioni di effetti preesistenti. Si pensi, ad esempio, ad un fatto estintivo di altro precedente (arg. Ex art. 1321 c. c.) o ad un obbligo di non facere (come quello derivante da un divieto di alienazione art. 1379 c.c. o da un patto di non concorrenza, art. 1596 c.c.).

 

(3) “Tempus de necessitate est in quolibet actu, quia omne quod fit, fit in tempore”.

Bartolo, cons. XCII, n. 8, p. 24 “recto”, t. X, ed. Venetiis, apud Juntas, 1615 (cit. in Saracini, Il termine e le sue funzioni, Milano, 1957, I, p. 11, nt. 17).

 

(4) Il Messineo, Manuale di dir. civ. e comm., Milano, 1957, I, p. 450, tenta di stabilire una distinzione tra: tempo (periodo o spazio, intervallo tra due momenti),  termine (dato momento o punto del tempo, istante, nel quale un dato effetto giuridico si produce o si esaurisce), data (punto cronologico nel quale matura una certa situazione o accade un dato fatto). Tale distinzione è criticata dal Russo, Il termine del negozio giuridico, Milano, 1973, p. 14, il quale in particolare sostiene che la distinzione tra termine e data è del tutto arbitraria perché, sotto gli aspetti considerati, le due parole sono fungibili. Sarebbe invece opportuno riservare l’espressione termine agli atteggiamenti della volontà, mentre ai modi di  essere nel tempo dei fatti o degli effetti potrebbe essere preferibile riservare l’espressione tempo o data. Solo in quanto il momento del tempo di un fatto o di un effetto sia predeterminato in una programmazione, il suo verificarsi potrebbe essere definito termine anzicchè data assumendosi, insomma, il tempo di un fatto programmato come termine di esso.

 

(5) Russo, Voce Termine (dir. civ.), in Enciclopedia Giuridica.

 

(6) “Inesatta è la consueta inclusione nella categoria dei fatti giuridici del tempo, indicato come uno dei più importanti fatti naturali”. Il tempo “non è che una relazione, un modo di essere del fatto: non è esso stesso un fatto”. Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1971, p. 111. (Così ancche Trimarchi, Voce Termine, dir. civ., N.mo Dig. Vol XIX, p. 96). Sul punto tuttavia non c’è uniformità di opinioni: si rinvia al Cap. I, per un’analisi della natura del termine.

La dottrina è divisa, inoltre, in relazione alla qualificazione come fatto giuridico del decorso del tempo. Coloro che sono a favore (Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale, Milano, 1957, p. 450; Carnelutti, Teoria generale del diritto, Roma, 1951, p. 206) evidenziano, a sostegno della loro tesi, come al decorso del tempo, possano ricollegarsi le conseguenze più svariate (es. venuta ad esistenza o l’estinzione di un diritto soggettivo, l’efficacia del negozio, la risoluzione del contratto in caso di termine essenziale, etc.), ma soprattutto farsi riferimento quale circostanza, che combinandosi con altri fatti giuridici, quali lo stato d’inerzia del titolare del diritto ed il possesso, integra particolari fattispecie (prescrizione ed usucapione). Chi invece ritiene che il decorso del tempo non costituisca un fatto giuridico autonomamente rilevante (Trimarchi, Voce Termine, in N.mo Dig. Vol. XIX, p. 96), mette in rilievo come la valutazione giuridica operata dall’ordinamento giuridico abbia sempre come punto di riferimento l’interesse umano e non le sue modalità.

 

(7) Trimarchi, op. cit., p. 96.

 

(8) Se si parte dall’assunto che il Principio di causalità, in virtù del quale ciascuna norma pone in essere un rapporto di causalità giuridica (rapporto fatto - effetto), permea l’intera fenomenologia giuridica (Teoria della causalità giuridica), il tempo degli effetti dovrebbe essere posteriore al tempo del fatto, postulandosi una necessaria successione di tempi tra “fatto condizionante”  e “valore condizionato” di ogni comportamento umano (Principio di condizionalità). Tuttavia la dottrina comunemente insegna, che l’effetto giuridico sorge nello stesso tempo in cui il fatto giuridico giunge a compimento (Principio di simultaneità).

Il Falzea, Voce Efficacia giuridica, in Enc. Dir., vol. XIV, p. 484, sostiene, che il contrasto tra le due affermazioni è solo apparente e si supera, operando nell’ambito dell’effetto giuridico una distinzione tra effetto, inteso come prospettiva assiologica operante nelle forme del dovere (necessità) e del potere (possibilità), ed attualità o effettività dell’effetto, intesa come realizzazione dell’effetto giuridico attraverso una modificazione della realtà materiale: i primi, nel rispetto del principio di simultaneità, sorgeranno nel momento in cui si conslude il fatto giuridico, i secondi, invece nel rispetto del principio di condizionalità, si verificheranno, senza eccezioni, fin dal tempo immediatamente successivo. E’ quindi corretto affermare, come fa la dottrina, che l’effetto giuridico “sorge” nel preciso momento in cui si conclude il fatto: Principio di simultaneità e Principio di condizionalità sono entrambi note essenziali della causalità giuridica. Diversa è la posizione del Cataudella, voce Fattispecie in Enc. Dir., p. 926 ss., I Contratti, parte generale, Torino, 1994, p. 137, che muovendo dalla contestazione della concezione causalistica della fattispecie, afferma, che avendo gli effetti giuridici la loro fonte esclusiva nell’ordinamento giuridico, il quale li definisce a seguito di una valutazione concreta del fatto cui li ricollega, la fattispecie, nel quadro di produzione degli effetti non è causa, né concausa, né condizione di essi e neppure condizione per il concretizzarsi della norma. Essa costituisce piuttosto uno dei termini, col soggetto valutante, dell’atto di valutazione: l’oggetto della valutazione. La fattispecie, quindi, non produce direttamente gli effetti, ma viene semmai a porsi come condizione per la configurabilità della valutazione concreta (ragione degli effetti) da parte dell’ordinamento giuridico (fonte esclusiva degli effetti), che a seguito della valutazione potrà anche rifiutarsi di ricollegare al fatto conseguenze giuridiche di sorta (es. nullità). La dinamica giuridica (fatto - effetti) va quindi spiegata facendo capo non al rapporto tra fatto e norma, bensì a quello tra fatto e ordinamento, di cui è da riconoscere la esclusiva competenza nella determinazione degli effetti giuridici, che proprio perché trovano la loro unica fonte nella legge (cui possono affiancarsi come fonti mediate in materia contrattuale: regole contrattuali, usi ed equità) possono qualificarsi effetti legali.

In relazione alle due differenti posizioni dottrinarie, espressione di due diverse concezioni del negozio giuridico (Teoria soggettiva e Teoria oggettiva), è da rilevare, che se è vero che la prima, individuando nella volontà la causa degli effetti, mostra i suoi limiti, quando, posta a confronto con le ipotesi in cui è la legge, a prescindere dalla volontà dei soggetti, a determinare gli effetti che un atto produce, è altrettanto vero che la seconda, che vede la manifestazione di volontà come “mero presupposto”, per l’intervento della legge, non esclude la necessità di considerare la successione nel tempo di atti e di effetti, alla cui disciplina resta legata la soluzione di innumerevoli conflitti.

 

(9) Il Saracini, op. cit., p. 11, afferma, che non ogni momento rilevante per il diritto è un termine: non lo è tutte le volte in cui esso costituisca la sede temporale di una fattispecie e non può esserlo quando costituisca la sede temporale dei suoi effetti. Non può concepirsi che una fattispecie si verifichi, né che i suoi effetti si producano, senza che ciò accada in un determinato momento, così come non può concepirsi che una fattispecie si verifichi o che i suoi effetti si producano in un certo momento, senza che quest’ultimo assuma una sua rilevanza giuridica. Ma ciò non consente in alcun modo di considerare tale momento come un termine, trattandosi per l’appunto della sede temporale della fattispecie o dei suoi effetti, cioè di qualcosa assolutamente inscindibile sia dall’una che dagli altri.

 

(10) La dottrina (Trabucchi, Istituzioni di diritto civile, Padova, 1989, p. 180; Barbero, Il sistema del diritto privato, Torino, 1988, p. 274) fa in

 

(11) Carnelutti, Teoria generale del diritto, ****, 1940, p. 390. L’A. ricorre a tale espressione, per indicare, che in tale ipotesi il tempo non serve a misurare la durata, ma invece a determinare la distanza tra uno e altri oggetti.

 

(12) Di Majo, La rilevanza del termine come elemento del contenuto dell’atto, Milano, 1968, p. 10 ss..