I soggetti legittimati alla denuncia di gravi irregolarità nella gestione di società di capitali ex art.2409 c.c.

 

Francesca Romana Stefanelli

 

Ai sensi dell’art.2409 c.c., la legittimazione alla denuncia di gravi irregolarità compiute da amministratori e sindaci nell’adempimento dei loro doveri, che costituisce l’atto introduttivo del procedimento di controllo giudiziario sulle società di capitali, è attribuita ai soci che rappresentino perlomeno un decimo del capitale sociale. Accanto alla legittimazione attiva della minoranza qualificata, il legislatore del ’42 ha poi stabilito che i provvedimenti indicati al terzo comma della norma in esame possano essere richiesti al Tribunale anche dal pubblico ministero, realizzando così una delle maggiori innovazioni della disciplina attuale rispetto a quella pregressa dettata all’art.153 dell’abrogato codice di commercio.

Recenti interventi legislativi hanno ulteriormente ampliato la sfera dei soggetti legittimati attivamente attribuendo il potere di impulso processuale a soggetti diversi dai soci e dal P.M., in vista della tutela di interessi ulteriori rispetto a quello alla regolare gestione societaria, benché ad esso correlati. L’art.3, quinto comma, D.L. 30 gennaio 1979, n.26 convertito in legge 3 aprile 1979, n.95 (c.d. legge Prodi), attribuisce al commissario straordinario dell’impresa in crisi, sottoposta alla procedura di amministrazione straordinaria, la legittimazione a proporre la denunzia ex art.2409 c.c., contro gli amministratori e i sindaci della società che controlla direttamente o indirettamente la società in amministrazione straordinaria, di quelle direttamente o indirettamente controllate da quest’ultima e di quelle che in base alla composizione di rispettivi organi amministrativi risultano sottoposte alla stessa direzione della società in amministrazione straordinaria. L’attribuzione della legittimazione al commissario straordinario sarebbe finalizzata “all’eliminazione delle disfunzioni di gestione sotto il profilo del perseguimento di interessi di gruppo (a detrimento di quello sociale di ogni singola partecipata)”(1).

Analogamente il commissario della liquidazione coatta amministrativa di società fiduciarie e di revisione e di enti di gestione fiduciaria è legittimato, secondo l’art.2 punto 6, D.L. 5 giugno 1986, n.233 convertito in legge 1°agosto 1986, n.430, a proporre la denuncia prevista dall’art.2409 c.c. contro gli amministratori e i sindaci della società controllante, di quelle controllate o sottoposte alla stessa direzione della società in liquidazione coatta amministrativa, e delle società finanziate in via continuativa o in misura prevalente da quest’ultima.

 

1.- La legittimazione dei soci: il requisito qualitativo e i casi eccezionali di legittimazione attiva a prescindere dalla qualità di socio

 

La legittimazione attiva dei soci è subordinata alla sussistenza di due requisiti, uno di natura qualitativa, che consiste nella necessità che i denunzianti abbiano la qualità  di socio, ed uno di natura quantitativa, per cui detti soci devono rappresentare  un decimo del capitale sociale nel caso di società non quotate in borsa e un quinto per quelle quotate.

Quanto al primo di questi due requisiti, si tratta di stabilire quando e secondo che criteri un soggetto acquisti la qualità di socio ai fini della legittimazione al ricorso ex art.2409 c.c.  A riguardo si possono individuare tre orientamenti principali (2): un primo orientamento ritiene condizione necessaria e sufficiente per legittimare al ricorso, l’iscrizione nel libro dei soci di cui all’art.2421 cc, primo comma, n.1 (3); il secondo ritiene elemento sufficiente il possesso del titolo azionario o delle quote; il terzo orientamento, marginale rispetto ai due precedenti, vincola la legittimazione del socio alla titolarità del diritto di voto.

I sostenitori della prima di queste teorie (4), e con loro certa giurisprudenza (5), fanno notare che soltanto con l’iscrizione nel libro dei soci  il soggetto acquista la qualità di socio di fronte alla società e che questo è il solo elemento rilevante ai fini della legittimazione, a nulla valendo la titolarità dell’azione che risulti nei rapporti sostanziali inter parte (6). Com’è evidente, la questione ha una rilevanza tutt’altro che teorica, soprattutto nel caso di trasferimento delle quote o delle azioni. Se si attribuisse il potere di denuncia al cessionario della quota o giratario dell’azione non iscritto, si correrebbe il rischio di attribuire la legittimazione ad un soggetto che non è e non diventerà mai socio, ben potendo il cessionario o giratario trasferire a sua volta la quota o il titolo senza essere mai stato iscritto nel libro dei soci.

Non si può, però, fare a meno di notare che, seguendo questa linea interpretativa, verrebbe d’altra parte compromessa la possibilità, da parte dei possessori non iscritti di titoli azionari, di denunciare irregolarità relative proprio alla regolare tenuta del libro dei soci “essendo del tutto possibile che l’organo amministrativo rifiuti arbitrariamente all’avente diritto  l’iscrizione, al fine di escludere temporaneamente lo stesso dall’assemblea dominata da una maggioranza compiacente” (7). Ma anche volendo prescindere da questa ragione di opportunità, si è sostenuto che la teoria che subordina la legittimazione attiva all’iscrizione nel libro dei soci non tiene neppure conto del ridimensionamento della funzione di questo libro sociale verificatosi in seguito all’emanazione della  legge 29 dicembre 1962, n.1745 (8). Questa legge ha riaffermato il principio della nominatività obbligatoria del titolo azionario ma, nel contempo, ha svincolato l’esercizio dei due principali diritti inerenti all’azione –quello al dividendo e quello di voto- dall’iscrizione nel libro dei soci, attribuendoli al giratario possessore del titolo (art.4). In base alla ratio della norma, che è evidentemente quella di riservare maggior rilievo alla sostanziale titolarità dell’azione piuttosto che alle risultanze formali dell’iscrizione nel libro dei soci, alcuni autori ritengono che ad esso spetti ogni posizione soggettiva, compreso il diritto alla denuncia (9). La constatazione che il mero possesso delle azioni configura in capo al giratario un interesse sostanziale alla corretta gestione sociale ha indotto parte della dottrina a ritenere che dovesse essergli, per ciò stesso, attribuito anche lo strumento previsto dalla legge a tutela di quell’interesse.

A questi argomenti si è ribattuto con un’interpretazione più restrittiva dell’art.4 citato, sostenendo che, poiché la norma prevede ipotesi eccezionali di esercizio di diritti in mancanza dell’iscrizione nel libro dei soci, non è possibile estenderne la portata oltre l’ambito espressamente circoscritto dalla norma (10), anche volendosi convenire sull’opportunità pratica di attribuire la legittimazione alla denuncia al titolare dell’interesse sostanziale benché non iscritto. La norma fa infatti esplicito riferimento al diritto di voto, che non comprende in sé il diritto di denuncia (11), ed inoltre, ad indicare il diverso atteggiamento del legislatore rispetto a questi due diritti del socio, la disciplina dettata subordina l’esercizio del diritto di voto, secondo il disposto del successivo art.5, al preventivo deposito delle azioni che non è invece richiesto per l’attivazione del procedimento di controllo giudiziario (12). Il deposito consente di escludere che il voto sia esercitato da un soggetto che abbia già trasferito il proprio titolo e, nel contempo, vincola la società ad annotare il trasferimento della titolarità nel libro dei soci prima della restituzione delle azioni affinché alla sostanziale titolarità faccia riscontro anche la titolarità formale.

Quanto all’ultimo dei tre orientamenti, esso si fonda sull’assunto che la denuncia di irregolarità sia un diritto che si collega e discende dal diritto di voto, poiché colui che concorre alla formazione della volontà collettiva della società deve poter intervenire per fare in modo che essa, così come le disposizioni di legge in materia di regolarità gestionale, sia rispettata dagli organi sociali (13). Si è però fatto notare che “riguardo al procedimento dell’art.2409, (…) i soci, oltre che come tali, sono considerati in quanto rappresentanti la percentuale stabilita del capitale nominale della società. E’ necessario che i soci siano possessori di azioni in misura tale da rappresentare la frazione stabilita del capitale, non rilevando pertanto la spettanza del diritto di voto o la facoltà di esercitare altri poteri” (14).

Per questo motivo la legittimazione attiva spetta a tutti i possessori di azioni, ordinarie e non, che concorrono alla formazione del capitale, non essendo in alcun modo rilevante a questi fini che le azioni non attribuiscano il diritto di voto oppure lo attribuiscano limitatamente a certe ipotesi (15). Dunque sono legittimati alla denuncia i possessori di azioni privilegiate, a voto limitato, a favore di prestatori di lavoro, e i possessori di azioni di risparmio, restando esclusi unicamente i portatori di azioni di godimento. Queste azioni, infatti, non sono rappresentative di una partecipazione a quote del capitale sociale e dunque non possono entrare nel computo del decimo del capitale sociale necessario alla denuncia (16).

Posto che la qualità di socio è elemento necessario e sufficiente ad attribuire la legittimazione al ricorso, la dottrina (17) e la giurisprudenza (18) hanno escluso che assuma alcuna rilevanza l’eventualità che il socio rivesta nel contempo il ruolo di amministratore. Non convince infatti l’argomento di chi sostiene l’esclusione del socio-amministratore dal novero dei legittimati al ricorso, sulla base del fatto che il legislatore non lo ha espressamente menzionato come tale. Al contrario, il silenzio del legislatore lascia intendere che non vi sia alcun profilo di incompatibilità tra la denuncia e la carica di amministratore ricoperta dal socio poiché, diversamente, sarebbe stato logico attendersi una deroga espressa alla regola generale così come è accaduto nel caso del divieto dell’amministratore a votare  nelle deliberazioni riguardanti la propria responsabilità previsto all’art.2373 c.c., terzo comma.

Il Tribunale di Roma (19), ha negato la legittimazione del socio-amministratore, invece, sulla base della considerazione che non sussiste “un interesse alla tutela giurisdizionale contro se stesso”, basandosi sul presupposto del carattere intersoggettivo della norma. In realtà è opinione generalmente condivisa, su cui avremo modo di tornare più diffusamente in seguito, che il procedimento di controllo ex art.2409 c.c. si inserisca nell’ambito della giurisdizione volontaria e non contenziosa, per cui ben può agire a tutela dell’attuazione della legge anche il socio- amministratore. L’affermazione sempre più netta dei profili pubblicistici in materia di interessi tutelati porta anche ad escludere che al socio-amministratore possa rifiutarsi la legittimazione per carenza di interesse ad agire, poiché non c’è motivo di escludere che egli possa intervenire a tutela del generale interesse alla corretta gestione della società (20). Il fatto che l’amministratore possa intervenire con altri strumenti giuridici per contrastare l’eventuale irregolarità nell’attività gestoria e per far rilevare il proprio dissenso non esclude automaticamente che egli, nel caso in cui rivesta la qualità di socio, possa far ricorso alla denuncia al Tribunale, tanto più che i poteri di intervento concessi al giudice sono dotati di un’incisività di gran lunga maggiore rispetto a quelli concessi all’amministratore (21). In ogni caso, poi, i rimedi concessi all’amministratore dal codice operano all’interno della società, a tutela diretta degli interessi dei soci, mentre il controllo esterno dell’autorità giudiziaria è preordinato, come abbiamo ricordato più volte, alla tutela di interessi ulteriori (22).

 

2.- segue: Il requisito quantitativo e la rilevanza delle modifiche di capitale in corso di procedimento

 

Il secondo criterio indicato, ai fini della configurazione della legittimazione attiva, è di natura quantitativa e consiste, come abbiamo accennato, nella titolarità da parte dei denunzianti di una quota pari almeno ad un decimo del capitale sociale (23).

La scelta del legislatore di limitare l’attribuzione del potere di impulso ad una minoranza qualificata, peraltro rappresentativa di una quota piuttosto alta del capitale, soprattutto in società di grandi dimensioni, è giustificata dall’esigenza di garantire la serietà dell’iniziativa processuale, tenuto conto dei gravi effetti che il procedimento di controllo può dispiegare sulla vita sociale. Si è in sostanza voluto evitare che il procedimento di controllo potesse essere utilizzato da minoranze sparute, in modo avventato o con scopi meramente ricattatori, trasformandosi così da mezzo di tutela in  strumento vessatorio delle maggioranze.

Nel sottile gioco di equilibri che sovrintende all’evoluzione della disciplina del controllo giudiziario e alla sua esegesi, e che costituisce per lo studioso l’elemento forse di maggior fascino, alla scelta di subordinare la legittimazione attiva alla titolarità di una quota di capitale di notevole entità, si è presto contrapposta la preoccupazione che il quorum legislativo costituisse un ostacolo eccessivo per le minoranze di società di grandi dimensioni ed, in particolare, di quelle quotate, che si caratterizzano per l’accentuata frammentazione del capitale. A questo rischio ha posto rimedio l’art.128.2 del D.Lgs. 24 febbraio 1998, n.58, meglio noto come “decreto Draghi”, che, nel capo riservato alla tutela delle minoranze di società con azioni quotate, in mercati regolamentati italiani o di altri paesi dell’Unione europea (art.119), legittima alla denuncia i soci che rappresentino “almeno il 5% del capitale sociale”, potendo l’atto costitutivo stabilire eventualmente percentuali di capitale inferiori.

Fissata la quota minima di capitale sociale occorrente a proporre la denuncia, il legislatore tace su di un eventuale limite massimo, per cui non c’è motivo di escludere che la denuncia possa essere fatta anche dai soci di maggioranza (24) oppure dai titolari dell’intero capitale sociale. Chi sostiene il contrario (25), fa notare che i soci di maggioranza, intesi come i soci in grado di “far deliberare dall’organo assembleare i provvedimenti che si vorrebbe fossero adottati”, possono  far revocare amministratori e sindaci per questa via (artt.2383 e 2400 c.c.) e, allo stesso modo, adottare gli eventuali provvedimenti opportuni, per cui mancherebbe in capo ad essi l’interesse ad agire ex art.100 c.p.c. Questa teoria però non tiene conto del fatto che l’attività dell’autorità giudiziaria in sede di controllo non si risolve nella mera revoca degli organi di gestione e controllo, che costituisce soltanto uno e il più estremo dei provvedimenti adottabili dal Tribunale, ma si propone di ripristinare, attraverso i provvedimenti opportuni, la corretta gestione sociale nella sua interezza, senza finalità sanzionatorie e nell’interesse non solo dei soci bensì pure nell’interesse generale. A tutela di questo interesse generale ben può agire anche il socio di maggioranza. Oltre alla differenza degli interessi che possono essere tutelati, rispettivamente, dai rimedi interni ex artt.2383, terzo comma, e 2400, primo e secondo comma, e dal procedimento ex art.2409, ad escludere ogni rapporto di sussidiarietà, c’è pure una sostanziale differenza di presupposti. La revoca di amministratori e sindaci da parte della maggioranza assembleare richiede che sussista una giusta causa, il che comporta che si tratti di un provvedimento “adottato a fronte di fatti precisi e già accertati”(26). La denunzia ex art.2409 c.c è subordinata, invece, ad un fondato sospetto di gravi irregolarità che possono poi essere accertate nel corso del procedimento. Qualora queste argomentaioni non si ritenessero sufficienti, interviene, a fugare ogni dubbio, la laconica osservazione che la maggioranza potrebbe in ogni caso aggirare l’eventuale limite alla legittimazione facendo avanzare la denuncia ex art.2409 c.c. ad una parte soltanto dei soci che la compongono (27).

Assai più rilevante, in ragione della frequenza con cui si presenta nella pratica, è la questione delle conseguenze prodotte sulla legittimazione ad agire dalle modifiche del capitale sociale che abbiano luogo nelle more del procedimento e dalle eventuali modifiche delle quote dei ricorrenti che possono perciò verificarsi. Poniamo il caso che la società deliberi un aumento del capitale sociale dopo che i soci legittimati abbiano avanzato denunzia ex art.2409 c.c. e che questi, avendo deciso di non sottoscriverlo, vedano ridotta sotto il decimo la loro partecipazione al capitale sociale. Il problema è stabilire se il giudice, verificato il venir meno dei requisiti di legittimazione, debba oppure no dichiarare l’improcedibilità.

Non c’è dubbio che il requisito della titolarità del decimo del capitale sociale debba sussistere al momento della denuncia e che il calcolo della quota debba riferirsi al capitale sociale allora esistente, ciò su cui si controverte è se tale requisito debba permanere nel corso dell’intero procedimento. La dottrina (28), e la giurisprudenza (29) prevalenti propendono per la soluzione negativa perlopiù argomentando dal carattere di presupposto processuale del requisito in questione. Qualora la titolarità del decimo di capitale fosse invece considerata come una condizione dell’azione essa dovrebbe sussistere fino al termine del procedimento (30). La contrapposizione tradizionale tra presupposti processuali e condizioni dell’azione, secondo la quale i primi devono considerarsi come gli elementi “richiesti per la validità del processo” e  le seconde invece come le condizioni richieste “per ottenere il provvedimento favorevole”(31), poggia sulla teoria classica dell’azione come diritto autonomo rispetto al diritto soggettivo che con essa si vuole far valere. I presupposti processuali sono necessari al regolare esercizio dell’autonomo diritto d’azione e devono sussistere al momento della proposizione della domanda; le condizioni dell’azione sono invece quelle la cui sussistenza è necessaria ai fini del riconoscimento del diritto soggettivo che si intende far valere e, dunque, devono permanere fino al momento della sentenza o, in questo caso, al termine del procedimento. Sul punto in realtà conveniamo con chi sottolinea che il dualismo su prospettato tra diritto all’azione e diritto sostanziale, “che costituisce il punto di partenza e il punto di arrivo dell’autonomia dell’azione”(32), poggi sull’equivoco di considerare esistente in concreto un diritto, soggettivo o oggettivo, prima e al di fuori dell’azione.

Superata questa concezione dell’azione, si fa notare, verrebbe meno pure la distinzione tra presupposti processuali e condizioni dell’azione nei termini in cui l’abbiamo prospettata, ma non è certo questa la sede per addentrarsi in queste tematiche. Ai fini del caso in esame è sufficiente tener presente che le categorie dei presupposti processuali e delle condizioni dell’azione sono state individuate in relazione al processo di cognizione, per cui il loro richiamo nel caso del procedimento di controllo è argomento delicato, che dipende anche dalla natura giuridica che a questo si voglia riconoscere.

Non a caso si fa sempre più largo una corrente dottrinale che, prescindendo dalla qualificazione giuridica del requisito della titolarità del decimo del capitale, sostiene la teoria prevalente della irrilevanza del suo venir meno nel corso del procedimento, alla luce degli interessi tutelati da quest’ultimo. I sostenitori di questa corrente fanno notare che nel controllo giudiziario l’azione si risolve in un potere di impulso attribuito dalla legge ad alcuni soggetti specificamente individuati, perciò “è (…) nel momento in cui il tribunale viene sollecitato ad intervenire nella vita della società con i suoi provvedimenti che occorre valutare se l’impulso provenga dai soggetti a ciò legittimati dalla legge”(33). Una volta iniziato, il procedimento proseguirà a prescindere dal permanere di quei requisiti, poiché è finalizzato alla tutela di interessi ulteriori rispetto a quelli di cui i legittimati sono diretti portatori. Quest’ordine di considerazioni porta a ritenere irrilevanti le modifiche delle quote di partecipazione al capitale in seguito a deliberazioni di aumento, ben potendosi sostenere allo stesso tempo, come riteniamo opportuno, il carattere di condizioni dell’azione, sebbene sui generis nel senso riferito, rivestito dai requisiti di legittimazione (34).

A sostegno della tesi maggioritaria possono addursi anche ragioni di ordine pratico. Se si optasse per la necessità del permanere del requisito per tutto il procedimento, i soci di maggioranza potrebbero deliberare aumenti di capitale proprio al fine di far decadere la legittimazione attiva dei ricorrenti, senza contare che non avrebbe molto senso costringere alla sottoscrizione del capitale il socio ricorrente che evidentemente non ripone alcuna fiducia nei dirigenti da lui denunziati (35).

Del tutto peculiare è la posizione di quell’Autore (36) che, riconoscendo la natura di condizioni dell’azione del requisito della titolarità del decimo del capitale, distingue tra i casi in cui tale requisito venga meno per fatto della società e il caso in cui venga meno per fatto dei soci ricorrenti. Nel primo caso le deliberazioni, ad esempio di aumento del capitale, che determinassero il venir meno della rappresentanza del decimo “sarebbero nulle perché incompatibili con i provvedimenti disposti e le iniziative consentite ex art.2409 c.c.”. Nel secondo caso “il sopravvenuto difetto di legittimazione attiva non potrà che condurre all’inammissibilità della denuncia”.

 

3.- La legittimazione del pubblico ministero

 

Secondo il disposto dell’art.69 c.p.c., il pubblico ministero esercita l’azione civile nei casi stabiliti dalla legge. La tassatività delle ipotesi indica il carattere straordinario dell’azione pubblica rispetto alla regola generale dell’azione di parte, come dimostra il dettato dell’art.2907 c.c. secondo cui, alla tutela giurisdizionale dei diritti provvede l’autorità giudiziaria su domanda di parte e, quando la legge lo dispone, anche su istanza del pubblico ministero o d’ufficio. L’iniziativa di cui il P.M. è dotato ex art.2409 c.c. rientra dunque tra questo limitato numero di ipotesi.

L’attribuzione al P.M. del potere di richiedere al Tribunale i provvedimenti opportuni, al fine di ripristinare la regolare gestione societaria, dimostra con tutta evidenza la presenza nel procedimento di un interesse di natura pubblicistica. Si tratta di una premessa necessaria poiché la soluzione di molte questioni di natura processuale sorte attorno alla legittimazione del P.M. dipende, come si avrà modo di notare, dalla posizione che si assume in merito alla qualificazione degli interessi tutelati dal procedimento.

Tenuto conto che il P.M. agisce per la tutela di un interesse pubblico, non si può, ad esempio, condividere l’opinione di chi (37), sostenendo che la legittimazione di questo organo sarebbe invece finalizzata a tutelare gli interessi di minoranze più esigue rispetto a quelle titolari dell’autonomo potere di denuncia, ritiene che la sua iniziativa sarebbe subordinata ad un atto di sollecitazione proveniente dalle minoranze non qualificate. Sebbene, per ragioni piuttosto logiche, il P.M. ottenga, in genere, proprio dai soci le informazioni relative alle supposte irregolarità amministrative, la natura della fonte delle informazioni non qualifica in nessun modo le finalità dell’azione. Se si accogliesse la lettura proposta verrebbe vanificata, in aperto contrasto con la previsione legislativa, la distinzione tra minoranze qualificate, dotate di legittimazione, e minoranze deboli (38) dettata a garanzia dell’attendibilità della denuncia. Il fatto che nella pratica difficilmente l’azione del P.M. sia determinata da una diretta conoscenza delle irregolarità ma sia in genere provocata dalla denuncia di uno o più soci, indica soltanto che “il P.M. deve essere particolarmente cauto nel far uso della sua iniziativa, non prestandosi a divenire troppo facile strumento di più o meno puliti manovrieri, cui può interessare nuocere alla società col discredito che un’ispezione all’amministrazione della società può alla stessa arrecare per il solo fatto di essere ordinata.”(39)

L’iniziativa del P.M. ha dunque carattere autonomo rispetto a quella dei soci (40). Ad argomentare la tesi dell’autonomia dell’iniziativa del P.M. vi è pure chi (41), prescindendo dalla configurabilità della tutela di un interesse pubblicistico, ne adduce la funzione di tutela dell’interesse dei soggetti estranei alla società. La richiesta del P.M. consentirebbe di superare  il conflitto tra l’interesse del terzo alla regolare amministrazione della società e l’opposto interesse della società alla riservatezza delle notizie riguardanti la sua amministrazione. Il P.M., infatti, potrebbe acquisire la prova delle irregolarità e invocarne la rimozione senza svelare il risultato dell’audizione degli organi sociali, o dell’ispezione, prima del provvedimento del tribunale. La configurazione della legittimazione del P.M. come strumento di tutela dei terzi determinerebbe una necessaria correlazione tra lo spazio di iniziativa attribuita al P.M. e il contenuto degli interessi dei terzi cosicché la richiesta non dovrebbe ridursi all’indicazione di un fondato sospetto di gravi irregolarità, ma dovrebbe porre in relazione l’irregolarità col pregiudizio di determinati terzi o di specificate categorie di terzi (42). In questo modo, però, si attribuirebbe alla legittimazione del P.M. un carattere sostitutivo che non le si può riconoscere e nel contempo ci si vedrebbe costretti a configurare due diversi interessi alla base dell’iniziativa dei soci e di quella del P.M., cosa che, si è detto, non ci pare sostenibile. In verità entrambi i soggetti legittimati sono stati scelti dal legislatore in quanto “soggetti idonei a servire da strumento per promuovere la difesa e l’attuazione di un interesse generale”(43), i soci in ragione della loro posizione interna alla società che consente di venire a conoscenza dei comportamenti irregolari, il P.M. in ragione del ruolo svolto nell’ordinamento. Ed in ogni caso, a far tacere ogni questione, va preso atto che la legittimazione è conferita al PM dalla legge senza distinzioni di sorta intorno a natura delle fonti di informazione, interessi da tutelare, e soggetti pregiudicati dalle irregolarità (44).

Se dunque non si può sostenere che l’iniziativa del P.M. sia finalizzata alla tutela delle minoranze non qualificate, il pubblico ministero si deve ritenere legittimato a promuovere la propria richiesta anche nel caso di irregolarità gestionali riscontrate nell’ambito di una società con un unico socio che non intenda avvalersi del procedimento (45). Chi sostiene il contrario configura, nell’ipotesi indicata, una carenza di interesse, sul presupposto che il controllo giudiziario è previsto a tutela esclusiva o comunque prevalente dell’interesse delle minoranze. Il fatto che in questo caso manchi, per definizione, una minoranza da tutelare e che il P.M. agisca, per forza di cose, in contrasto con la volontà sociale non ha invece alcuna rilevanza, atteso che l’interesse perseguito dal P.M., in questo come in tutti gli altri casi, è quello generale alla corretta amministrazione cui l’ordinamento tende a prescindere dalla volontà dei soci (46). Egualmente e per gli stessi motivi, non costituisce elemento preclusivo all’autonoma iniziativa del P.M. l’approvazione dell’operato degli amministratori e dei sindaci da parte dell’assemblea (47). Come ha fatto notare il tribunale di Milano, in occasione della nota vicenda giudiziaria che ha portato all’ispezione della Soc. Publitalia ex art.2409 c.c. e che costituisce un caso paradigmatico dell’avvio del procedimento su iniziativa del P.M., la “ tutela [ dell’interesse generale connesso alla corretta amministrazione della società ] non può essere esclusa tanto nel caso in cui i soci non si accorgano delle irregolarità commesse dagli organi da loro nominati, quanto, a maggior ragione, allorché ne siano perfettamente consapevoli, divenendone partecipi, perché anche in questi casi l’interesse generale deve evidentemente prevalere su quello dei singoli soci”(48).

La presenza del P.M. nel corso del procedimento può derivare, oltre che dall’esercizio dell’autonomo potere di iniziativa di cui si è detto, anche da un suo intervento successivo alla denuncia dei soci legittimati. Secondo l’art.70 c.p.c. il pubblico ministero deve intervenire a pena di nullità, rilevabile d’ufficio, nelle cause che egli stesso potrebbe proporre (49) (c.d. intervento obbligatorio). Parte della dottrina e della giurisprudenza (50) ritengono che l’intervento del P.M. nel procedimento di controllo rientri in questa ipotesi ma le opinioni a riguardo non sono del tutto concordi. Alcuni sostengono (51) che il riferimento normativo alle “cause”, dovendosi attribuire a questo termine il significato giuridico di procedimento a natura contenziosa, escluderebbe l’applicabilità della norma al procedimento di controllo giudiziario, che è generalmente inquadrato nella giurisdizione volontaria, dovendosi perciò intendere l’intervento del P.M. come facoltativo (52). La configurazione dell’intervento come obbligatorio o come facoltativo assume rilevanza nell’ipotesi in cui la sentenza di primo grado sia assunta senza sentire il P.M. In tal caso, se si ritiene che l’intervento del P.M. sia obbligatorio, la sentenza deve ritenersi viziata da nullità, secondo alcuni (53) rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado, secondo altri (54) motivo di gravame da far valere nei limiti e secondo le norme dell’appello. La prassi, comunque si voglia qualificare l’intervento, è in ogni caso quella di trasmettere gli atti al P.M. ai sensi dell’art.71, primo comma, c.p.c. dettato per le ipotesi di intervento obbligatorio e dell’art.738, secondo comma, c.p.c. che, in materia di procedimenti in camera di consiglio, stabilisce che, “se deve essere sentito il pubblico ministero, gli atti sono a lui previamente comunicati.”

Dottrina e giurisprudenza si sono interrogate sulla questione se il mero intervento del P.M. in un procedimento attivato dalla denuncia dei soci di minoranza fosse sufficiente a configurarne   un’autonoma   iniziativa    o    se   non    fosse necessario, a questo fine, proporre un autonomo ricorso. La questione assume una notevole rilevanza nel caso in cui la denuncia, proposta da uno o più soci, debba essere dichiarata inammissibile per il difetto di rappresentanza di almeno un decimo del capitale sociale. Propendendo per la tesi dell’obbligatorietà, una volta intervenuto nel procedimento, il P.M. ha, secondo il disposto dell’art.72, comma primo, tutti i poteri delle parti: “può allegare fatti integranti le gravi irregolarità, indicare mezzi di prova o chiedere specifici provvedimenti ed il suo atto processuale nel contenuto non differisce dalla richiesta introduttiva”(55). Dunque, ogni volta che il P.M. faccia propria la denuncia dei soci si deve ritenere che esso eserciti un autonomo potere di denuncia permettendo al procedimento di proseguire, nel rispetto, peraltro, dei principi di economia del giudizio. Se si prevedesse diversamente, si dovrebbe infatti attendere il ricorso del P.M. e l’instaurazione di un nuovo procedimento frustrando, tra l’altro, le esigenze di urgenza sottese al procedimento di controllo. Sembra invece sufficiente, a dar conto del cambiamento del soggetto agente, la notifica o la comunicazione agli amministratori della richiesta del P.M. (56) oppure, secondo alcuni, la semplice contestazione orale in udienza (57). Non sarebbe, invece, sufficiente a configurare un’iniziativa autonoma il mero parere favorevole del P.M. alla denuncia dei soci non legittimati, come ha specificato la Corte d’Appello di Milano, secondo cui è necessario che il P.M. faccia “espressa e specifica dichiarazione di far propria l’iniziativa”(58).

Nella pratica i casi in cui il procedimento di controllo giudiziario è attivato su iniziativa del P.M. sono in realtà molto rari e, per la maggior parte di questi rari casi, l’iniziativa è esercitata su sollecitazione di soci non legittimati. Si tratta di una constatazione su cui è necessario riflettere se è vero che il legislatore riteneva di realizzare attraverso la legittimazione del P.M. “un ardito passo avanti”. Senza negare che questo in parte sia avvenuto, resta il fatto che il potere innovativo di questo sesto comma non ha dispiegato tutti i suoi effetti. Secondo coloro che questo procedimento applicano e di cui dunque conoscono i limiti pratici (59), i motivi di questa parziale inefficienza sono da ricercarsi nell’attuale struttura degli uffici del pubblico ministero e, in senso più lato, nell’attuale dipendenza del P.M. dal potere esecutivo. Un efficace controllo giudiziario sulle società ad opera del P.M. potrebbe essere realizzato, secondo l’opinione di quella giurisprudenza, soltanto garantendo tanto l’indipendenza del P.M. dal potere esecutivo quanto quella dei sostituti dal Procuratore Capo poiché se alla prima non si acompagnasse una modifica strutturale degli uffici “ricadremmo da quella, diciamo, diffidenza che oggi nutriamo nei confronti della Pubblica Amministrazione che non può toccare determinati centri di potere, in un' altra diffidenza, come quella per il Procuratore Capo, che può impedire al sostituto che è riuscito (…) a toccare un certo centro di interessi, di svolgere la sua attività.”(60). 

 

NOTE

 

(1) L.Rovelli, I soggetti del procedimento e posizione processuale in Atti della tavola rotonda “Il controllo giudiziario sulla gestione delle società”, in Le Società, 1990, II, p.1186

(2) L’individuazione delle tre teorie sull’acquisto della qualità di socio che qui proponiamo è di Picone, Legittimazione attiva ex art.2409 c.c., nota a Trib.Milano, 17 giugno 1993, in Società & Diritto, 11, 1993

(3) Il codice civile stabilisce che nel libro dei soci debbano essere indicati il nome dei soci e i versamenti fatti sulle azioni (o sulle quote) nonché i trasferimenti e le variazioni nelle persone dei soci (artt.2421, primo comma, n.1, c.c. e 2490, primo comma, n.1, c.c.).

(4) A.Marcinkiewicz-A.Patelli, op.cit., p.150; A.Smiroldo Bongiorno, op.cit., p.233; G.Frè, Legittimazione e interesse nell’impugnazione di delibere assembleari, in Dir.fall., 1961, I, p.432; V.Salafia, Legittimazione al ricorso per la nomina di amministratore giudiziario, in Le Società, 1986, p.890

(5) Trib.Milano, 21 dicembre 1987, in Le Società, 1988, p.410; App.Bologna, 5 luglio 1975, in Giur.comm., 1975, II, p.763; Trib.Palermo, 1 dicembre 1972, Giur.comm., 1974, II, p.104

(6) B.Quatraro-E.Tosi, op.cit., p.435

(7) S.Taurini, Legittimazione del socio al procedimento ex art.2409 c.c., nota a Trib.Milano, 21 dicembre 1987 in Le Società, 1988, p.414.

Dello stesso avviso S.Gatti, L’iscrizione nel libro dei soci, Milano, 1969, p.94

(8) Sulla mutata funzione dell’iscrizione v. G.Ferri, Manuale di diritto commerciale a cura di C.Angelici e G.B.Ferri, Torino, 1996, X ed., p.347.

(9) Così G.Ferri, Le azioni sono ormai titoli all’ordine?, in Riv.dir.comm., 1963, I, p.56. Dello stesso avviso G.Domenichini, op.cit., p.601, secondo cui la portata della norma “pare estensibile anche all’esercizio di diritti sociali che del diritto di voto sono in un certo senso conseguenza e sviluppo”

(10) G.U.Tedeschi, op.ult.cit., p.340

(11) B.Libonati, I titoli di credito nominativi, Milano, 1963, p.94

(12) Il deposito delle azioni presso un istituto di emissione legalmente istituito o presso un notaio era invece richiesto, fino al termine del procedimento, dall’abrogato art.153 cod. comm. per provare la rappresentanza della quota di capitale richiesta ai fini della legittimazione. V.Cerami, op.cit., p.65, fa notare che l’eliminazione del deposito nell’attuale disciplina “può essere inteso come una prova della finalità pubblicistica dell’art.2409 c.c.”, poiché il deposito era finalizzato a garantire che gli interessi privati legati alla qualità di socio permanessero nel corso del procedimento.

(13) Così Trib.Milano, 21 dicembre1988, in Le società, 1989, p.620 e Trib..Milano, 16 luglio 1993, in Società & diritto, 2, 1994, p.12

(14) G.U.Tedeschi, La funzione preventiva del controllo giudiziario, in Le Società, 1989, p.614

                                  (15) V.Cerami, op.cit., p.71

(16) V.Cerami, loc.ult.cit. Nello stesso senso vedi G.U.Tedeschi, op.cit., 333; V.Vitrò, op.cit., p.238; F.Ferrara jr-F.Corsi, op.cit., p.397

(17) A.Patelli, La legittimazione del socio a proporre la denuncia, in Atti della Tavola rotonda “Il controllo giudiziario sulla gestione delle società”, in Le Società, 1990, II, p.1193; V.Cerami, op.cit., p.64; M.Ghirga, op.cit., p.240 e ss.; R.Dabormida, Il controllo giudiziario chiesto da un amministratore, in Le Società, 1988, p.290

(18) Trib.Livorno, 1° dicembre 1992, in Le Società, 1993, p.1354; Trib.Napoli, 25 febbraio 1991, ivi, 1991, p.1373; App.Milano, 22 novembre 1989, ivi, 1990, p.371

(19) Trib.Roma, 30 giugno 1984, in Le Società, 1985, p.518.

Dello stesso avviso Trib.Genova, 24 marzo 1989, ivi, 1989, p.961; Trib.Palermo, 20 maggio 1986, in Giur.comm., 1987, II, p.111

(20) E.Bonavera, Denunzia al tribunale del socio amministratore, in Le società, 1985, p.518

(21) A.Patelli, op.ult.cit., p.1195

(22) A.Marcinkiewicz-A.Patelli, op.cit., p.143

(23) Il riferimento è al c.d. capitale nominale della società cioè quello corrispondente alla somma del valore nominale delle azioni. Così G.U.Tedeschi, op.ult.cit., p331 e G.Frè, op.cit., p.285

(24) In dottrina: A.Marcinkiewicz-A.Patelli, op.cit., p.141; G.Bongiorno, Il procedimento previsto dall’art.2409 c.c., in Riv.trim.dir. e proc.civ., 1995, p.523

In giurisprudenza: Trib.Roma, 9 gennaio 1970, in Dir.Fall., 1970, II, p.216; App.Bologna, 18 luglio 1957, in Temi, 1957, p.366

(25) V.Cerami, op.cit., p.62 e ss.

(26) G.Canale, Sulla legittimazione della maggioranza sociale alla proposizione del reclamo ex art.2409 c.c., in Giur.comm., 1990, II, p.677

(27) G.Bongiorno, op.cit., p.524

(28) Sostengono con differenti argomentazioni che i requisiti non debbano permanere per tutto il corso del procedimento V.Cerami, op. cit., p.66; A.Jannuzzi op.cit., p.688; A.Marcinkiewicz-A.Patelli, op.cit., p.146 e ss.; G.A.Raffaelli, op.cit., c.22;  A.Smiroldo Bongiorno, op.cit., p.233

(29) Trib.Como, 3 febbraio 1994, in Le Società, 1994, p.669; Trib.Livorno, 1° dicembre 1992, ivi, 1993, p.1335 con nota critica di G.U.Tedeschi; App.Milano, 22 novembre 1989, ivi, 1990, p.371

(30) D.Pettiti, op.cit., p.279; C.Giannattasio, Ancora in tema di denuncia per gravi irregolarità degli amministratori e dei sindaci, in Foro pad., 1960, I, p.211

(31) S.Satta-C.Punzi, op.cit., p.161

(32) S.Satta-C.Punzi, op.cit., p.155

(33) M.Ghirga, op.cit., p.220

(34) Propendono per l’irrilevanza del venir meno della rappresentanza del decimo del capitale sociale alla luce degli interessi tutelati dal procedimento: A.Jannuzzi, op.cit., p.688;  M.Ghirga, op.cit., p.219

(35) A.Marcinkiewicz-A.Patelli, op.cit., p.146; S.Taurini, op.cit., p.413

(36) G.U.Tedeschi, op.cit., p.345 e ss.

(37) In dottrina F.Ferrara jr-F.Corsi, op.cit., p.592; in giurisprudenza Trib.Roma, 28 gennaio 1972, in Foro it., I, c.2764; App.Milano, 5 marzo 1969, in Foro pad., 1969, I, c.1991

(38) G.Franchi, Sulla richiesta di ispezione o di amministrazione giudiziaria delle s.p.a. presentata dal pubblico ministero, in Giur.it., 1963, I, 2, p.741

(39) G.A.Raffaelli, op.cit., c.23

(40) Trib.Milano, 6 giugno 1983, in Giur.Comm, 1985, II, p.102: “Il PM è legittimato a promuovere il procedimento previsto dall’art.2409 senza la necessità di una previa denuncia da parte dei soci”

(41) G.Franchi, op.cit., c.742; U.Loi, Appunti per una discussione sulla partecipazione del P.M. al procedimento previsto dall’art.2409 c.c., in Riv.soc., 1971, p.336

(42) G.Franchi, op.cit., c.742

(43) M.Ghirga, op.cit., p.259

(44) G.U.Tedeschi, op.ult.cit., p.330

(45) In dottrina G.U.Tedeschi, op.ult.cit., p.469; A.Patroni Griffi, op.cit., p.339; V.Allegri, op.cit., p.745. In giurisprudenza Trib.Vicenza, 21 settembre 1985, in Le Società, 1986, p.172; Trib.Palermo, 1 dicembre 1972, in Giur.comm., 1974, II, 104; Trib.Milano, 20 novembre 1968, in Foro pad., 1970, I, p.192

(46) Trib.Milano, 11 luglio 1995, in Foro it., 1996, I, c.2227 (c.d. sentenza Publitalia). “Qualora sospetti gravi irregolarità nell’adempimento dei doveri degli amministratori e dei sindaci di una società di capitali, il pm è legittimato a proporre ricorso al Tribunale (…) anche in caso di società facente capo ad un unico socio e contro la volontà di questi

(47) Trib.Milano, 15 ottobre 1985, in Le Società, 1986, p.305; Trib.Roma 14 luglio 1982, in Le Società, 1983, p.12. Contra App.Milano, 26 ottobre 1979, in Giur.comm., 1980, II, 745

(48) Trib.Milano, 11 luglio 1995, cit., c.2237

(49) Le altre ipotesi di intervento obbligatorio previste dalla norma citata sono: le cause matrimoniali comprese quelle di separazione personale dei coniugi, le cause riguardanti lo stato e la capacità delle persone, e alcuni casi previsti dalla legge (c.p.c. 221, 796; c.c. 87, 89, 2330; l.fall. 132, 142, 162)

(50) In dottrina G.A.Raffaelli, op.cit., c.17. In giurisprudenza App.Firenze, 30 aprile 1982, in Le Società, 1982, II, p.1288; App.Bologna, 15 gennaio 1955, in Giur.it, 1955, I, 2, p.227

(51) App.Genova, 23 giugno 1955 in Foro pad., 1955, I, p.1292 con nota favorevole di F.Gajotti

(52) L’ultimo comma dell’art.70 c.p.c. detta che il PM può ( e non deve) intervenire in ogni altra causa in cui ravvisa un pubblico interesse

(53) App.Firenze, 30 aprile 1982, cit.

(54) Cass., 8 febbraio 1967, n.330, in Giur.it., 1967, I, 1, p.1119 con nota critica di A.Petrocelli

(55) B.Quatraro-E.Tosi, op.cit., p.513

(56) V.Salafia, Il controllo giudiziario a norma dell’art.2409 c.c. nell’esperienza del Tribunale di Milano in Il controllo sul funzionamento delle S.p.A., Napoli, 1974, p.57;  A.Marcinkiewicz-A.Patelli, op.cit., p.135

(57) G.Franchi, op.cit., p.741; A.Jannuzzi, Richiesta di provvedimenti ai sensi dell’art.2409 c.c. e comunicazione alle altre parti, in Giust.civ., 1961, I, p.2000

(58) App.Milano, 6 dicembre 1962, in Giur.it., 1963, I, 2, p.595

(59) V.Salafia, op.cit., p.79

(60) Idem