Sentenza Corte Costituzionale n. 508 del 13-20 novembre 2000
Nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 402 del
codice penale, promosso con ordinanza emessa il 5 novembre 1998 dalla Corte di cassazione
nel procedimento penale a carico di A. G., iscritta al n. 105 del registro
ordinanze 1999 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 10,
prima serie speciale, dell’anno 1999.
Udito nella camera di consiglio del 27 settembre 2000 il Giudice
relatore Gustavo Zagrebelsky.
Ritenuto in fatto
1. – Con ordinanza del 5 novembre 1998, la Corte di cassazione
ha sollevato questione di costituzionalità dell’art. 402 cod. pen. (Vilipendio
della religione dello Stato), in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 8,
primo comma, della Costituzione.
2. – Premesse le vicende del giudizio di merito, quanto al fatto
storico e quanto alle diverse conclusioni dei giudici di primo grado e di
appello, la Corte rimettente sottolinea in primo luogo la rilevanza della
questione: si tratta infatti di verificare la legittimità costituzionale della
norma incriminatrice oggetto della contestazione all’imputato.
3. – Quanto alla non manifesta infondatezza, la Corte di
cassazione svolge la motivazione dell’ordinanza attraverso una rassegna del
percorso della giurisprudenza costituzionale e delle modifiche normative in
tema di reati "di religione".
La Cassazione muove dalla prima decisione resa dalla Corte
costituzionale sull’art. 402 cod. pen. - sentenza n. 39 del 1965 – con la quale
era stata rigettata una questione di costituzionalità, riferita agli artt. 3,
8, 19 e 20 della Costituzione, principalmente sul rilievo che la tutela penale
rafforzata della religione cattolica, rispetto alle altre confessioni, trovava
giustificazione nella sua connotazione di religione professata dalla
maggioranza dei cittadini, e dunque nella maggiore ampiezza e intensità delle
reazioni sociali alle offese che alla stessa religione potessero essere
rivolte.
La norma penale in argomento – prosegue la Corte rimettente – si
riferisce alla "religione dello Stato", una nozione, questa, ripresa
dall’art. 1 dello Statuto albertino e ribadita nell’art. 1 del Trattato
Lateranense del 1929, che, oltre a essere incompatibile con il principio supremo
di laicità dello Stato (quale emerge dalle sentenze nn. 203 del 1989 e 149 del
1995 della Corte costituzionale), è stata comunque superata dalle modifiche
concordatarie del 1984; il punto 1 del Protocollo addizionale all’accordo di
modifica del Concordato, ratificato con la legge 25 marzo 1985, n. 121,
infatti, afferma che "si considera non più in vigore il principio,
originariamente richiamato dai Patti lateranensi, della religione cattolica
come sola religione dello Stato italiano".
E ancora a tale riguardo, la Cassazione rileva che la Corte
costituzionale ha ritenuto che l’espressione "religione dello Stato"
utilizzata nel codice penale, una volta venuta meno la possibilità di
attribuirle l’originario significato, non ha altro senso se non quello di un semplice
"tramite linguistico" con il quale viene indicata la religione
cattolica (sentenze nn. 925 del 1988 e 440 del 1995).
Ciò posto, il giudice rimettente, per argomentare la questione,
assume come propri taluni passaggi di più recenti decisioni della Corte
costituzionale.
Nella sentenza n. 329 del 1997, osserva la Cassazione, è stato
messo in rilievo che "secondo la visione nella quale si mosse il
legislatore del 1930, alla Chiesa e alla religione cattoliche era riconosciuto
un valore politico, quale fattore di unità morale della nazione. Tale visione,
oltre a trovare riscontro nell’espressione ‘religione dello Stato’, stava alla
base delle numerose norme che, anche al di là dei contenuti e degli obblighi
concordatari, dettavano discipline di favore a tutela della religione
cattolica, rispetto alla disciplina prevista per le altre confessioni
religiose, ammesse nello Stato. Questa ratio differenziatrice certamente non
vale più oggi, quando la Costituzione esclude che la religione possa
considerarsi strumentalmente rispetto alle finalità dello Stato e viceversa
(sentenze nn. 334 del 1996 e 85 del 1963, nonché 203 del 1989)".
D’altra parte, prosegue la Cassazione, la giurisprudenza
costituzionale ha da tempo abbandonato il criterio "quantitativo" inizialmente
utilizzato (ad esempio, nelle sentenze nn. 125 del 1957, 79 del 1958 e 14 del
1973) per giustificare la tutela rafforzata a favore della religione "di
maggioranza": già nella decisione n. 925 del 1988 si è affermato che è
"ormai inaccettabile ogni tipo di discriminazione (che si basi) soltanto
sul maggiore o minore numero degli appartenenti alle varie confessioni
religiose"; mentre la successiva sentenza n. 440 del 1995 ha precisato che
"l’abbandono del criterio quantitativo significa che in materia di religione,
non valendo il numero, si impone ormai la pari protezione della coscienza di
ciascuna persona che si riconosce in una fede, quale che sia la confessione
religiosa di appartenenza".
Da ultimo – conclude la Cassazione – la Corte costituzionale,
nella già citata sentenza n. 329 del 1997, ha definitivamente escluso la
possibilità di giustificare differenziazioni legislative nella tutela penale
del "sentimento religioso", osservando che "la protezione del
sentimento religioso è venuta ad assumere il significato di un corollario del
diritto costituzionale di libertà di religione, corollario che, naturalmente,
deve abbracciare allo stesso modo l’esperienza religiosa di tutti coloro che la
vivono, nella sua dimensione individuale e comunitaria, indipendentemente dai
diversi contenuti di fede delle diverse confessioni. Il superamento di questa
soglia attraverso valutazioni e apprezzamenti legislativi differenziati e
differenziatori, con conseguenze circa la diversa intensità di tutela, infatti,
inciderebbe sulla pari dignità della persona e si porrebbe in contrasto col
principio costituzionale della laicità o non confessionalità dello Stato ... :
principio che, come si ricava dalle disposizioni che la Costituzione dedica
alla materia, non significa indifferenza di fronte all’esperienza religiosa ma
comporta equidistanza e imparzialità della legislazione rispetto a tutte le
confessioni religiose".
4. – In tale quadro di riferimento, si delineano, ad avviso
della Corte di cassazione, le seguenti coordinate della questione: a) il venir
meno del carattere di religione "di Stato" per la confessione
cattolica ha riportato quest’ultima nell’ambito della pari dignità rispetto a
ogni altra confessione, conformemente al disegno costituzionale; b) la Corte
costituzionale ha numerose volte sollecitato il legislatore a rimuovere ogni
ingiustificata differenza di tutela penale tra la religione cattolica e le
altre confessioni; c) il reato di cui all’art. 402 cod. pen. mantiene viceversa
una effettiva discriminazione tra confessioni religiose, tutelando esclusivamente
la religione cattolica.
Ne deriva la necessità di rimettere al controllo di
costituzionalità la compatibilità tra la norma penale in discorso e i principi espressi
negli artt. 3, primo comma, e 8, primo comma, della Costituzione.
Considerato in diritto
1. – La Corte di cassazione solleva questione di legittimità
costituzionale dell’art. 402 del codice penale (Vilipendio della religione
dello Stato) che punisce con la reclusione fino a un anno "chiunque
pubblicamente vilipende la religione dello Stato". Il giudice rimettente
dubita che la disposizione in esame, accordando una tutela privilegiata alla
sola religione cattolica – già religione dello Stato (sentenze nn. 925 del
1988, 440 del 1995 e 329 del 1997) – violi gli artt. 3 e 8 della Costituzione,
cioè l’eguaglianza di tutti i cittadini senza distinzione di religione e
l’eguale libertà di tutte le confessioni religiose davanti alla legge.
2. – La questione è fondata.
3. – Posta dal legislatore penale del 1930, la norma impugnata,
insieme a tutte le altre che prevedono una protezione particolare a favore
della religione dello Stato-religione cattolica, si spiega per il rilievo che,
nelle concezioni politiche dell’epoca, era riconosciuto al cattolicesimo quale
fattore di unità morale della nazione. In questo senso, la religione cattolica
era "religione dello Stato" - anzi necessariamente "la
sola" religione dello Stato (formula risalente all’art. 1 dello Statuto
albertino e riportata a novella vita dall’art. 1 del Trattato fra la Santa Sede
e l’Italia del 1929): oltre che essere considerata oggetto di professione di
fede, essa era assunta a elemento costitutivo della compagine statale e, come
tale, formava oggetto di particolare protezione anche nell’interesse dello Stato.
Le ragioni che giustificavano questa norma nel suo contesto
originario sono anche quelle che ne determinano l’incostituzionalità
nell’attuale.
In forza dei principi fondamentali di uguaglianza di tutti i
cittadini senza distinzione di religione (art. 3 della Costituzione) e di uguale
libertà davanti alla legge di tutte le confessioni religiose (art. 8 della
Costituzione), l’atteggiamento dello Stato non può che essere di equidistanza e
imparzialità nei confronti di queste ultime, senza che assumano rilevanza
alcuna il dato quantitativo dell’adesione più o meno diffusa a questa o a
quella confessione religiosa (sentenze nn. 925 del 1988, 440 del 1995 e 329 del
1997) e la maggiore o minore ampiezza delle reazioni sociali che possono
seguire alla violazione dei diritti di una o di un’altra di esse (ancora la
sentenza n. 329 del 1997), imponendosi la pari protezione della coscienza di
ciascuna persona che si riconosce in una fede quale che sia la confessione di
appartenenza (così ancora la sentenza n. 440 del 1995), ferma naturalmente la
possibilità di regolare bilateralmente e quindi in modo differenziato, nella
loro specificità, i rapporti dello Stato con la Chiesa cattolica tramite lo
strumento concordatario (art. 7 della Costituzione) e con le confessioni
religiose diverse da quella cattolica tramite intese (art. 8).
Tale posizione di equidistanza e imparzialità è il riflesso del
principio di laicità che la Corte costituzionale ha tratto dal sistema delle
norme costituzionali, un principio che assurge al rango di "principio
supremo" (sentenze nn. 203 del 1989, 259 del 1990, 195 del 1993 e 329 del
1997), caratterizzando in senso pluralistico la forma del nostro Stato, entro
il quale hanno da convivere, in uguaglianza di libertà, fedi, culture e
tradizioni diverse (sentenza n. 440 del 1995).
Queste conclusioni sono progressivamente maturate, pur partendo
da proposizioni iniziali per diversi aspetti divergenti (sentenze nn. 79 del
1958; 39 del 1965; 14 del 1973), in concomitanza con significativi e convergenti
svolgimenti dell’ordinamento. Il punto 1 del Protocollo addizionale all’Accordo
che apporta modificazioni al Concordato lateranense, recepito con la legge 25
marzo 1985, n. 121, ha esplicitamente affermato il venire meno del principio
della religione cattolica come sola religione dello Stato e, con le diverse
intese poi raggiunte con confessioni religiose diverse da quella cattolica, si
è messo in azione il sistema dei rapporti bilaterali previsto dalla
Costituzione per le altre confessioni. In tale contesto, si è manifestata la
generale richiesta allo Stato di una sua disciplina penale equiparatrice, o nel
senso dell’assicurazione della parità di tutela penale (come è nel caso
dell’art. 1, quarto comma, dell’intesa con l’Unione delle Comunità ebraiche
italiane del 27 febbraio 1987), o nel senso che la fede non necessita di tutela
penale diretta, dovendosi solamente apprestare invece una protezione
dell’esercizio dei diritti di libertà riconosciuti e garantiti dalla
Costituzione (art. 4 dell’intesa con la Tavola valdese del 21 febbraio 1984;
preambolo all’intesa con le Assemblee di Dio in Italia del 29 dicembre 1986;
preambolo all’intesa con l’Unione Cristiana Evangelica Battista d’Italia del 29
marzo 1993). A fronte di questi svolgimenti dell’ordinamento nel senso
dell’uguaglianza di fronte alla legge penale, l’art. 402 del codice penale
rappresenta un anacronismo al quale non ha in tanti anni posto rimedio il
legislatore. Deve ora provvedere questa Corte nell’esercizio dei suoi poteri di
garanzia costituzionale.
4. – Sebbene, in generale, il ripristino dell’uguaglianza
violata possa avvenire non solo eliminando del tutto la norma che determina
quella violazione ma anche estendendone la portata per ricomprendervi i casi
discriminati, e sebbene il sopra evocato principio di laicità non implichi
indifferenza e astensione dello Stato dinanzi alle religioni ma legittimi
interventi legislativi a protezione della libertà di religione (sentenza n. 203
del 1989), in sede di controllo di costituzionalità di norme penali si dà solo
la prima possibilità. Alla seconda, osta infatti comunque la particolare
riserva di legge stabilita dalla Costituzione in materia di reati e pene (art.
25, secondo comma) a cui consegue l’esclusione delle sentenze d’incostituzionalità
aventi valenze additive, secondo l’orientamento di questa Corte (v., in analoga
materia, la sentenza n. 440 del 1995).
La dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 402
del codice penale si impone dunque nella forma semplice, esclusivamente ablativa.
Per questi motivi la Corte Costituzionale
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 402 del codice
penale (Vilipendio della religione di Stato)