Il Tribunale Penale Internazionale: il problema del ruolo del Consiglio di Sicurezza della Nazioni Unite.

 

Tommaso Senni

 

 

Le questioni sollevate dalla facoltà del Consiglio di Sicurezza di adire il Tribunale penale internazionale sono riconducibili a due categorie di problemi: innanzitutto, l’aspetto inerente agli ostacoli che spesso impediscono la costruzione di un partenariato costruttivo tra i due organi; quindi, il problema di carattere pratico, che coincide con la pratica alcune volte ostruzionistica nei confronti dell’azione del Tribunale[1].

Entrambi i succitati problemi attengono, dal punto di vista giuridico e politico,  alla intrinseca natura del Tribunale Penale Internazionale, il quale veniva creato, nel biennio 1993 – 1994, nelle sue configurazioni del TPIY e del TPIR (rispettivamente per la ex-Yugoslavia e per il Ruanda), con l’esplicito intento di evitare la creazione di un Tribunale “speciale” o ad hoc[2]: un eventuale ricorso, da parte del Consiglio di Sicurezza, alla facoltà, riconosciutagli dall’art. 41 della Carta delle Nazioni Unite, di stabilire a sua discrezione dei Tribunale ad hoc, avrebbe senz’altro suscitato la diffidenza generalizzata degli Stati membri dell’ONU, oltre che della comunità internazionale in genere. Per questa ragione parve accettabile, anzi auspicabile, “inquadrare” l’azione del Consiglio di Sicurezza nell’ambito di uno schema prestabilito, cioè lo statuto del costituendo Tribunale (il c.d. Statuto di Roma). Certo, lo Statuto della nuova Corte non è dotato di sufficiente forza giuridica per intaccare le prerogative di azione del Consiglio sulla base della Carta di San Francisco, e, di conseguenza, non potrebbe inibire, per l’avvenire, la facoltà riconosciuta a quest’ultimo, di creare Tribunali ad hoc[3]. Tuttavia, risultava decisamente poco probabile che i cinque membri permanenti si sarebbero accordate sul ricorso all’art. 41 in una materia politicamente così delicata: anzi, due di essi, precisamente la Cina e gli Stati Uniti, avrebbero votato comunque contro l’adozione del progetto definitivo, e si sarebbero astenuti, oltretutto, un certo numero di delegazioni di paesi arabi rappresentati in seno all’Assemblea Generale.

Il progetto fu elaborato dapprima dalla Commissione di Diritto Internazionale e presentato per la prima volta all’Assemblea Generale nel 1994: quest’ultima decise di stabilire un Comitato speciale l’anno successivo, incaricata di redigere un rapporto che, poi, a sua volta, sarebbe arrivato nelle mani di un Comitato Preparatorio. A causa dell’elevatissimo numero di clausole contenute nel progetto (il c.d. package deal), e della scarsezza di tempo a disposizione delle delegazioni per esaminarle, i temi più controversi (il c.d. regime di consenso preliminare per l’avvio di una procedura davanti alla Corte, il ruolo del Procuratore Generale, del Consiglio di Sicurezza, ecc.) hanno praticamente monopolizzato il dibattito, alle spese dei temi considerati (a torto) meno problematici, come, appunto, la facoltà del Consiglio di Sicurezza di adire il Tribunale[4].

La creazione della Corte attraverso lo strumento di una risoluzione del Consiglio fu ben presto abbandonata a vantaggio dell’elaborazione di un trattato multilaterale. Sono individuabili almeno due ragioni a giustificazione di tale scelta: prima di tutto, “il Consiglio di Sicurezza non è un legislatore internazionale, dotato della facoltà di adottare delle regole generali e impersonali”[5]; in secondo luogo, lo stesso Segretario Generale delle Nazioni Unite riconobbe che il trattato multilaterale costituiva “il metodo utilizzato normalmente per costituire un tribunale internazionale”, poiché tale metodo “permetterebbe una valutazione dettagliata e approfondita di tutte le questioni che stanno alla base” della sua creazione[6].

E’ importante, prima di passare alla trattazione delle due fondamentali questioni cui si accennava, approfondire un tema preliminare, attinente ai legami che intercorrono tra la Corte Penale Internazionale e il Consiglio Sicurezza in quanto organi internazionali funzionali. Ora, è più che evidente che la competenza della nuova Corte, ratione materiae, è (o può essere) “inglobata” da quella del Consiglio, nella misura in cui le finalità della prima, sulla base del Preambolo allo Statuto di Roma, ispirato al principio della promozione della giustizia internazionale, rientra potenzialmente nel raggio della “responsabilità principale in materia di mantenimento della pace e della sicurezza internazionale”, che fa capo al secondo: i crimini per i quali la Corte avrà competenza[7] saranno verosimilmente commessi nell’ambito di situazioni di cui si occuperà il Consiglio ai sensi del Capitolo VII della Carta, sempre che non costituiscano essi stessi una minaccia contro la pace e la sicurezza internazionale[8]: pare, quindi, del tutto naturale e spontaneo che si sia scelto di attribuire una posizione di assoluta preminenza al Consiglio all’interno della categoria dei soggetti abilitati ad adire la Corte.

Passando a considerare cumulativamente le due questioni che erano state poste in premessa, occorre far riferimento all’art. 13 (b) dello Statuto della Corte, il quale statuisce: “La Corte può esercitare la sua competenza relativamente ai crimini cui si riferisce l’articolo 5, conformemente alle disposizioni del presente Statuto: […] b) se una situazione nella quale uno o più crimini che sembrano essere stati commessi sono stati devoluti al Procuratore dal Consiglio di Sicurezza, agente in virtù del Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite”. Pare, quindi, che il Consiglio di Sicurezza sia il solo organo delle Nazioni Unite che si è visto riconoscere la facoltà di adire la Corte. Il primo Progetto di Statuto, elaborato dalla Commissione di diritto internazionale nel 1951, prevedeva la concessione di una simile facoltà all’Assemblea Generale, la quale, come si sa, dispone pur sempre di una competenza generale in fatto di tutela dei diritti umani (art. 55 della Carta) e di una responsabilità secondaria per quanto concerne la tutela della pace e della sicurezza internazionale. Tuttavia, la proposta in esame fu respinta in blocco, a vantaggio della tesi dell’esclusività della facoltà consiliare: del resto, se durante la Guerra Fredda il Consiglio era rimasto a lungo bloccato a causa della politica dei veti incrociati, e quindi l’Assemblea Generale aveva visto aumentare la propria influenza nella dinamica interna all’organizzazione, in seguito sarebbe avvenuto esattamente il contrario. Inoltre, costituivano ulteriori argomenti a sostegno della seconda tesi il carattere non obbligatorio delle raccomandazioni emanate dall’Assemblea Generale per gli Stati membri dell’ONU (anche se questo ostacolo avrebbe potuto essere facilmente superato[9] attraverso il meccanismo delle “autorizzazioni preventive”, di cui all’art. 12 dello Statuto della Corte[10]) e il legame stretto tra Corte e Consiglio, al quale si accennava poc’anzi, inerente all’”inglobamento”[11] di competenza ratione materiae[12]. Per comprendere il funzionamento del deferimento di un crimine al Procuratore da parte del Consiglio, bisogna considerare il precitato art. 13 (b) dello Statuto di Roma, il quale si riferisce, però, esclusivamente all’azione del Consiglio sulla base del Capitolo VII della Carta, evitando ogni riferimento al Capitolo VI[13] e, contrariamente ai due articoli precedenti, relativi rispettivamente al deferimento di un’indagine da parte di uno Stato o del Procuratore stesso motu proprio, evita clamorosamente, attraverso una formulazione ellittica, di specificare le modalità dell’approccio del Consiglio alla Corte[14].

Oltretutto, la confusione aumenta se si considera che l’art. 16, il quale, esaminando la facoltà del Consiglio di sospendere la trattazione di inchieste o indagini già avviate dalla Corte, richiede “una risoluzione adottata ai sensi del Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite”: qual è la differenza tra i due articoli? Se per esercitare la facoltà di sospensione occorre una risoluzione, quale tipo di atto si richiederà per deferire un’inchiesta alla Corte? A quest’ultima domanda bisogna rispondere, in generale, tenendo conto una serie di indici normativi, che una raccomandazione non sarà sufficiente, occorrendo, invece, una vera e propria decisione. Questi indici sono, nell’ambito dei lavori preparatori, l’art. 10 del Progetto di Statuto presentato alla Conferenza di Roma, il quale faceva già riferimento alla soluzione accennata, l’art. 23 del Progetto elaborato dalla Commissione di Diritto Internazionale[15], l’art. 25 della Carta delle Nazioni Unite (dal quale emerge la contrapposizione tra decisioni e risoluzioni, dotate di carattere non vincolante), oltre all’architettura generale dello Statuto di Roma, in particolare la disposizione che prevede l’abolizione del regime dell’autorizzazione preventiva nei casi in cui l’indagine sia deferita dal Consiglio (se fosse stata ritenuta sufficiente una semplice raccomandazione, il regime di autorizzazione preventiva, verosimilmente, non sarebbe stato abolito, ma mantenuto, così da permettere agli Stati interessati dalla controversia – lo Stato “del territorio” o lo Stato “della nazionalità – di intervenire per collaborare con la Corte).

Passando a considerare, in concreto, il meccanismo con cui l’intervento del Consiglio attiva la competenza della Corte, può essere utile ricordare l’espressione “two-track system of jurisdiction”, impiegata per la prima volta da M.P. Scharf[16]  per distinguere i casi nei quali la Corte è adita dal Consiglio di Sicurezza da quelli in cui è invece adita da uno Stato contraente o dal Procuratore Generale motu proprio. I casi rientranti nella prima categoria, che interessano maggiormente il nostro discorso, presentano indubbi vantaggi per il soggetto che si rivolge alla Corte, aspetto che si manifesta, in particolare, nella fase preliminare a quella strettamente giudiziale. Innanzitutto, come già più volte anticipato, perché la competenza della Corte possa essere attivata, in genere, occorre il consenso preliminare dello Stato della cui cittadinanza è l’imputato (o indagato) oppure, in alternativa (e non più cumulativamente), dello Stato sul cui territorio è stato commesso il crimine[17]. Orbene, questo regime generale non trova applicazione esclusivamente nel caso in cui sia il Consiglio ad adire la Corte.

E’, oltretutto, interessante notare che l’art. 22 del Progetto della Commissione di Diritto Internazionale, poi ampiamente rimodellato, prevedeva, sul modello dell’art. 36, comma 2 dello Statuto della Corte Internazionale di Giustizia, che uno Stato non dovesse accettare automaticamente la competenza della Corte per i crimini compresi dall’art. 5 dello Statuto di Roma per il sol fatto di avervi aderito, ma che potesse respingere le indagini con una semplice dichiarazione unilaterale distinta, caso per caso: si trattava di una soluzione (quella c.d. “della doppia chiave”) evidentemente caldeggiata dagli Stati Uniti, favorevoli ad una maggiore politicizzazione del progetto, i quali, nel contempo, finivano per prediligere, così facendo, anche uno schema che avrebbe senz’altro svuotato di ogni legittimità e di ogni efficienza il ricorso alla corte da parte degli Stati individualmente considerati e dal Procuratore Generale vi è stato chi, intervenendo nel dibattito interno alla Conferenza di Roma, parlò di “spettro di giustizia selettiva”, apparente.

Inoltre, risulta, da una lettura parallela degli articoli 13 (b) e 12 (2) dello Statuto di Roma, che il ricorso del Consiglio alla Corte permetterà di liberarsi dell’imposizione limitativa costituita dai requisiti posti dall’art. 12, il quale, come detto, si riferisce al consenso dello Stato all’esercizio della competenza della Corte. Infatti, il paragrafo 2 dell’art. 12 rinvia unicamente ai commi (a) e (c) dell’art. 13, scartando, così, dal suo ambito di competenza il comma (b) di questo articolo, che si riferisce al ricorso del Consiglio alla Corte[18].

Il consenso degli Stati alla competenza della Corte è, del resto, da considerarsi sempre esistente, in via presuntiva, sulla base dell’art. 25 della Carta di San Francisco, almeno per tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite, nel caso in cui il Consiglio adotti una decisione a titolo del Capitolo VII: per questo specifico caso, uno specifico articolo dello Statuto sarebbe stato, senza dubbio, sovrabbondante[19].

Questo regime favorevole al Consiglio è stato architettato fin dalle fasi iniziali dell’elaborazione dello Statuto, ed è stato conservato senza essere realmente rimesso in questione in seguito. Anche perché non vi erano, logicamente, ragioni per una contestazione: dal momento che il principio del ricorso del Consiglio alla Corte era accettato, e questo sul fondamento del Capitolo VII, non si vede come si sarebbe potuto contestare l’esistenza di effetti obbligatori di una decisione di questo tipo nei confronti degli Stati membri delle Nazioni Unite. Non vi era alcun margine per richiedere la modifica dei poteri che il Consiglio detiene sulla base delle norme della Carta Fondamentale. In ogni caso, va detto che il Consiglio potrà, così, “imporre” la competenza della Corte a Stati non contraenti lo Statuto di Roma.

Come detto, l’art. 12 permette di perseguire un cittadino di uno Stato che non ha accettato la competenza della Corte, a partire dal momento in cui lo Stato del territorio è parte dello Statuto ( o ha accettato la competenza della Corte ad hoc, cosa resa lecita dall’art. 12, comma 3). Tuttavia, questa possibilità, anche ammesso che sia utilizzata, non potrà creare obblighi di sorta allo Stato della nazionalità che non ha accettato la competenza della Corte, poiché questo sarebbe in contraddizione con la Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969, nonostante alcuni Stati abbiano comunque preteso il contrario[20].

Al contrario, nel caso di un ricorso alla Corte da parte del Consiglio di Sicurezza, agente sulla base del Cap. VII della Carta, ogni Stato membro delle Nazioni Unite, e, tra questi ultimi, quelli che saranno maggiormente interessati dal litigio tra cui lo Stato della nazionalità dell’accusato, avranno l’obbligo di collaborare con la Corte, dal momento che il ricorso assume la forma di una vera e propria decisione in virtù del Capitolo VII[21].

Va, infine, notato come, precedentemente, il ricorso alla Corte da parte del Consiglio non abbia costituito una fonte di discordia, come lo è stata (e lo è ancora) la questione del ruolo del Consiglio relativamente al crimine di aggressione (articolo 5 dello Statuto), o la questione dei poteri che gli sono attribuiti in fatto di sospensione delle inchieste (articolo 16): tuttavia, un certo numero di Stati  (tra cui, in particolare, l’India, che ha definitivamente votato contro lo Statuto, essenzialmente per ragioni che ineriscono alla procedura di ricorso alla Corte da parte del Consiglio) hanno manifestato forti reticenze di fronte al rischio, per degli Stati non facenti parte dello Statuto, di vedersi imporre un obbligo di cooperazione con la Corte allorché questa sia adita dal Consiglio[22]. La prospettiva di un controllo della Corte da parte di Stati non contraenti lo Statuto, attraverso l’intermediazione del Consiglio di Sicurezza. Ma si tratta di critiche che, fino ad oggi, non hanno trovato alcuna eco[23].



[1] D.J. SCHEFFER, Interntional Judicial Internvention, in: Foreign Policy, 22 marzo 1996, p. 34.

[2] Cfr. il documento S/RES/827 (1993) finalizzato alla formalizzazione del TPIY; S/RES/955 (1994) RELATIVO AL TPIR.

[3] Cfr. il documento S/RES/955 (1994), oltre al Rapport du Secretaire Général établi conformément au paragraphe 2 de la résolution 808 (1993) du Conseil de Sécurité, S/25704, 3 maggio, p. 19, § 20 – 23.

[4] Bisogna considerare, altresì, che la discussione sul progetto in esame si svolgeva parallelamente con quella inerente alla riforma del Consiglio di Sicurezza, il che rendeva le trattative multilaterali ancora più complesse. Cfr. E. DULAC, Le role du Conseil de Sécurité dans la procédure devant la Cour pénale internationale, Université de Paris I, Panthéon – Sorbonne, 1999.

[5] M. BENNOUNA, Le fonctionnement de la Cour criminelle internationale ; bilan et perspectives, in : F. LATTANZI, Dai Tribunale Penali Internazionali ad hoc a una Corte Permanente, Editoriale Scientifica, Napoli, 1996, p. 206.

[6] Cfr. Rapporto del Segretario Generale, stabilito conformemente al paragrafo 2 della Risoluzione 808 (1993) del Consiglio di Sicurezza, S/25704, 3 maggio 1993, p. 19, § 20 – 23.

[7] In base all’art. 5, co. 1 dello Statuto di Roma, pare che si sia riservato alla Corte un “nocciolo duro” di crimini: il crimine di genocidio, il crimine contro l’umanità, i crimini di guerra, il crimine di aggressione. L’art. 1, del resto, parla dei “crimini più gravi dotati di una portata internazionale”.

[8] Interessante, a questo proposito, l’accenno fatto dal paragrafo 3 del Preambolo allo Statuto della Corte, il quale recita: “riconoscendo che crimini di tale gravità minacciano la pace, la sicurezza ed il benessere del mondo”.

[9] E. LA HAYE, The jurisdiction of the International Criminal Court: controversies over the preconditions for excercising its jurisdiction, in: Netherlands International Law Review, Vol. XL, VI, n. 1, 1999, pp. 11 – 12.

[10] V. infra.

[11] Cfr. l’art. 24 della Carta Fondamentale delle Nazioni Unite: ”Al fine di assicurare l’azione rapida ed efficace dell’Oeganizzazione, i suoi membri attribuiscono al Consiglio di Sicurezza la responsabilità principia edel mantenimento della pace e della sicurezza internazionale e riconoscono che, adempiendo a tale dovere che gli impone questa responsabilità, il Consiglio agisce in loro nome”. Cfr., sempre a questo proposito, l’art. 5, comma 1, dello Statuto di Roma.

[12] Il Consiglio ha, del resto, anche recentemente, qualificato ripetutamente la violazione di massa dei diritti umani come “minaccia contro la pace”: E’ stato il caso della Somalia (S/RES/746 – 1992), oltre che del Ruanda (S/RES/929 – 1994) e della ex-Yugoslavia (cfr. la risoluzione 827 del 25 maggio 1993 che istituì il TPIY).

[13] Cfr., a questo proposito, il Résumé des travaux du Comité préparatoires au cours de la période allant du 25 mars au 12 avril 1996, A/AC.249/1, 7 maggio 1996, p. 41: “On a relevé par ailleurs que le paragraphe 1  de l’article 23 ne permet au Conseil de renvoyer devant la Cour que des questions  relevant du Chapitre VII de la Charte. Certaines délégations ont proposé d’élargir cette faculté aux questions relevant du Chapitre VI en se référant aux articles 33 et 36 de la Charte qui préconisent l’intérvention pacifique du Conseil dans tout differend qui peut, en se prolongeant, menacer la paix et la sécurité internationales

[14] M. BENNOUNA, Le fonctionnement de la Cour criminelle internazionale: bilan et perspectives, in: F. LATTANZI, Dai Tribunali penali internazionali ad hoc ad una Corte permanente, Editoriale Scientifica, Napoli, 1996, p. 206.

[15] Rapport de la Commission du Droit International sur les travaux de sa quarante-sixième session, 2 maggio 1994, A/49/10, p. 48.

[16] M.P. SCHARF, Results of the Rome Conference, ASIL Insight, n. 23, agosto 1998, www.asil.org/insight23.htm.

[17] (Art. 12 dello Statuto: “Condizioni preliminari all’esercizio della competenza della Corte”) Si tratta di una delle norme più aspramente discusse in fase di approvazione del testo preliminare dello Statuto di Roma: essa rappresenta, evidentemente, un compromesso tra istanze divergenti. Si deve probabilmente all’impasse diplomatica in cui questo tema fece cadere le trattative, il rifiuto, da parte degli Stati Uniti, di firmare lo Statuto.

[18] G. SLUITER, An international criminal court is hereby established, in: Netherlands Quaterly of Human Rights, n. 3, 1998, p. 416.

[19] Solo qualche raro Stato si è opposto alla facoltà del Consiglio di adire la Corte: cfr., in particolare, le dichiarazioni in seduta plenaria nel corso della Conferenza di Roma dei rappresentanti dell’India (A/CONF.183/SR.9, PP. 2 – 3), del Pakistan (A/CONF.183/SR.3, P. 11) della Libia (A/CONF.183/SR.6, P. 9) e del Messico.(A/CONF.183/SR.3, P. 4)

[20] M.P. SCHARF, Results of the Rome Conference, ASIL Insight, n. 23, agosto 1998, op. cit.

[21] C.L. BLAKESLEY, Jurisdiction, definition of crimes and triggering mechanisms, in: Nouvelles Etudes Pénales, n. 13, 1997, pp. 202 – 203.

[22] Cfr., su questo punto, Assemblea Generale, Comitato per una Giurisdizione Penale Internazionale, Rapporto all’Assemblea Generale, A/AC.48/4, 5 novembre 1951, pp. 60 ss. V. anche, su questo punto, V.V. PELLA, American Journal of International Law, 1956, p. 62.

[23] E. LA HAYE, The jurisdiction of the International criminal Court: controversies over the preconditions for exercising its jurisdiction, in: Netherlands International Directive Review, Vol. XLVI, n. 1, 1999, pp. 11 – 12.