La derogabilità, ad opera delle parti individuali, delle regole di diritto del lavoro nel passaggio dalla concertazione al dialogo sociale.

Gianluca Faiella

 

Il libro bianco e il disegno di legge delega, presentata dal Governo, esaltano, nel quadro della riforma del mercato del lavoro, l’ampiezza dell’espressione “…tutela e sicurezza del lavoro”, contenuta nel nuovo art. 117 Cost., nel quadro del trasferimento alle regioni della potestà legislativa in materia di occupazione.

Secondo i redattori del libro bianco, il governo centrale dovrebbe intervenire al solo fine di dettare un “gruppo” di norme assolutamente inderogabili – il cd. Statuto dei lavori – che funga da necessario parametro di riferimento in una realtà complessa quale è quella delle relazioni industriali.

Le norme inderogabili, inquadrate nello statuto dei lavori – il cui nome rinvia ad un’esperienza ben più produttiva che il Governo non nasconde di voler rivedere –dovrebbero concernere aspetti generali del rapporto di lavoro, nel quadro di una regolamentazione, non per tipo di contratto ma per blocchi di materie.

Nel progetto dell’Esecutivo è possibile riscontrare l’intenzione di avvicinare le varie forme di lavoro atipico, fino a dissolverli nel modello tipico del rapporto a tempo indeterminato, il quale dovrebbe, peraltro, esser reso precario dalla derogabilità delle norme di legge e collettive ad opera della volontà individuale.

Tuttavia, lascia perplessi l’intenzione di collocare in un angolo il caposaldo del moderno diritto del lavoro, ossia l’inderogabilità della fonte legale ad opera di quella collettiva e di quest’ultima da parte di quella individuale. Sembra riduttivo che un esiguo numero di norme immodificabili, peraltro fissate in modo poco organico, possa assicurare quelle garanzie che costituiscono le fondamenta del moderno sistema di relazioni industriali.

Secondo il Governo, la globalizzazione dell’economia, che porta con se il dissolvimento dei mercati nazionali in un unico grande mercato mondiale, impone di realizzare una maggiore competitività del lavoro dipendente, la quale, passa per la riforma strutturale delle forme di incontro della domanda e dell’offerta, che necessitano di una drastica riduzione dell’intervento pubblico in nome di una più libera regolamentazione che  trovi nella mediazione privata il suo punto di riferimento.

Tutto questo moderno sistema dovrebbe ruotare intorno al concetto economico, di matrice neoclassica, della totale autoregolamentazione del mercato; la possibilità per le parti, o meglio la libertà per i datori di lavori, di fissare direttamente lo schema contrattuale più adatto alle proprie esigenze, consentirebbe di aumentare l’occupazione.

Alla luce di ciò, i redattori del libro bianco enfatizzano il ricorso alle soft laws di origine anglo-americana, ovvero norme “leggere” del diritto comunitario, nel quadro di una disciplina legale - o in mancanza collettiva - sempre rivedibile ad opera dei singoli attori.

Il concetto di norma leggera è, in verità, poco chiaro e meno chiaro è l’utilizzo che, secondo il libro bianco, se ne dovrebbe fare.

Le norme leggere sono contenute in decisioni degli organi dell’Unione – diverse dalle direttive e dai  regolamenti – o in orientamenti per l’occupazione; come tali non sono, dunque, vincolanti, ma fissano degli obiettivi, peraltro molto spesso solo suggeriti, da raggiungere.

La norma leggera comunitaria, in verità, costituisce, il più delle volte, uno strumento per provocare accordi in campi dove, l’intervento normativo degli organi dell’Unione incontra maggiori ostacoli.

Le soft laws del diritto anglo-americano, invece, possono esser considerate una sorta di codice di comportamento, o di “buona condotta”, in determinati campi – ad es. nell’ambito di particolari mestieri – anch’esse non vincolanti, ma, tuttavia, invocabili dinanzi agli employment tribunals per influenzare l’esito dei relativi procedimenti.

A ben vedere, nel nostro ordinamento, tanto diverso da quello anglosassone quanto più complesso di quello comunitario, appare difficile immaginare che le norme leggere possano esser utilizzate con tanto successo, peraltro, solo presunto.

Il ricorso a questo tipo di normazione consentirebbe, nell’ottica di una precarizzazione del rapporto di lavoro,  di fissare dei principi, che, pur avendo forma e sostanza di legge, sarebbero, tuttavia, sempre derogabili dalle parti individuali; queste norme sarebbero, dunque, utilizzando un’espressione di stampo comunitario – cui i redattori del libro bianco dicono di uniformarsi – delle guide lines.

In questo contesto, ci troveremmo, quindi, dinanzi ad un ridotto complesso di norme statali del tutto inderogabili, a fronte di immensi spazi da “riempire” attraverso la legislazione regionale anch’essa sempre derogabile dall’autonomia collettiva ed, in ultima analisi, dall’autonomia  individuale.

Possiamo, dunque, assistere alla più accentuata manifestazione del principio di sussidiarietà che in verità, può, senz’altro, rappresentare il più utile strumento per realizzare un autentico federalismo che, sull’esempio del modello tedesco, non alteri la competenza statale in materia di occupazione.

Tuttavia, il principio di sussidiarietà che emerge dall’opera riformista del Governo è strumentale alla realizzazione della piena flessibilità - o forse precarizzazione - del rapporto di lavoro, essendo incentrato sulla esaltazione della volontà individuale quale fonte di produzione delle regole applicabili al singolo rapporto.

In effetti, leggendo attentamente il libro bianco si ha l’impressione che i redattori intendano realizzare una flessibilità, non tanto dei modelli contrattuali, quanto delle fonti; non esiste più una fonte inderogabile - se non in relazione ad alcune residue materie - ma è compito dei singoli attori costituire il rapporto di lavoro che, è fin troppo superfluo dirlo, risentirà della diversità di forza delle parti.

Emblematico è, a tal proposito, il progetto di riforma del part – time così come disciplinato nella precedente legislatura - in attuazione della direttiva 97/81/CE del Consiglio – dai dd.lgs. 61/2000 e 100/2001; i quali, sono ritenuti dal Governo attuale inadeguati e non rispettosi della volontà del legislatore comunitario.

L’Esecutivo punta il dito, in particolare, contro i vincoli imposti alla regolamentazione collettiva ed individuale del part – time; appare inadeguata la previsione che il contratto collettivo possa stabilire soltanto la collocazione temporale della prestazione resa dal lavoratore.

I redattori del libro bianco, invece, propongono di consentire alle parti individuali di determinare il numero delle ore lavorative, ferma restando per la contrattazione collettiva la possibilità di individuare l’ambito di applicazione di tale disciplina.

Ci troviamo dinanzi al cd. lavoro a chiamata, che consente al datore di richiedere, in qualunque momento, al lavoratore assunto a tempo parziale, prestazioni aggiuntive nel part - time orizzontale e prestazioni supplementari in quello verticale, salvo, ed è questo l’unico obbligo per il datore, il pagamento di un’indennità di disponibilità cui, peraltro, il lavoratore non avrà diritto qualora opponga il suo legittimo rifiuto.

E’ vero che il lavoro a chiamata è ormai diffuso, con esiti positivi sull’occupazione, in Spagna, Portogallo, Olanda e Germania; tuttavia, ciò che lascia perplessi della proposta del Governo, è la possibilità per il datore di richiedere la prestazione, aggiuntiva ovvero supplementare, in qualunque momento le esigenze tecnico – produttive dell’impresa la rendano necessaria.

La tutela della dignità del lavoratore, che pure in tutti i paesi in cui il lavoro a chiamata è ampiamente utilizzato è elevata a principio irrinunciabile dal parte dei rispettivi Governi, è dal nostro soltanto accennata.

Si prevede il libero rifiuto alla chiamata del datore, ma poi si stabilisce che il lavoratore perda, in questo caso, il diritto al pagamento dell’indennità; come a dire che il lavoratore debba esser esclusivamente a disposizione di un datore.

Il lavoro part – time è finalizzato a consentire, nelle ore di non impiego, lo svolgimento di un’altra occupazione, ovvero l’esplicazione, in qualunque modo lecito, della libera personalità del prestatore di lavoro.

Non è difficile immaginare che il lavoratore a tempo parziale si mostrerà, il più delle volte, accondiscendente alla richiesta del datore, ben sapendo che in caso contrario, non solo perderà il diritto al pagamento dell’indennità, ma  potrà andare incontro alla risoluzione unilaterale del rapporto che, è inutile dirlo, non incontrerebbe ostacoli; egli, allora, difficilmente potrà gestire ed organizzare il proprio “tempo libero” da dedicare ad altre attività, nella consapevolezza di poter essere, in qualunque momento, chiamato a prestare il proprio lavoro.

Ci sembra, in verità, che una riforma in tal modo articolata comporti, nella sostanza, uno stravolgimento di questa forma di lavoro, che dovrebbe essere diretto, non solo a sostenere l’occupazione, ma anche a far fronte alla necessità di certe categorie di lavoratori, di programmare la prestazione richiesta in un tempo che consenta loro di svolgere anche una qualunque altra attività.

Al contrario, il lavoro a chiamata sembra finalizzato a garantire nessuna delle fondamentali suddette esigenze, ma a consentire al datore di lavoro di programmare le prestazioni dei propri dipendenti in base alle esigenze tecnico – produttive dell’impresa.

Non è, , da escludere, a dire il vero, che, dietro la necessità di regolare il part - time adattandolo al modello utilizzato nel resto dell’Europa, ci sia la volontà del Governo di trasformare questo tipo di prestazione in un’attività a tempo indeterminato; il contratto part - time, infatti, conserverebbe il proprio nomen iuris, ma, attraverso la possibilità di rivedere l’orario programmato mediante la richiesta di prestazioni aggiuntive e supplementari, nel quadro di un continuo rinnovo contrattuale, il rapporto sostanzialmente instaurato assumerebbe i contenuti del lavoro a tempo determinato

In questo di precarietà, dovrebbe essere l’attività delle associazioni sindacali a garantire e tutelare i diritti minimi ed inviolabili del lavoratore;tuttavia, l’attuale maggioranza politica sembra orientata a ridimensionare notevolmente il ruolo dei sindacati.     

Dobbiamo premettere che è possibile riscontrare una prima “stranezza” nella circostanza che, mentre il libro bianco esalta la funzione della contrattazione collettiva decentrata, il disegno di legge delega sembra fare un passo indietro recuperando l’importanza della contrattazione a livello nazionale.

Ambedue i documenti, invece, fanno riferimento ai sindacati comparativamente rappresentativi quali soggetti legittimati a contrattare, anzi dialogare, a livello collettivo.

Scompare, dunque, il riferimento al sindacato comparativamente più rappresentativo che, peraltro, costituisce un’evoluzione del concetto di sindacato maggiormente rappresentativo; che nella prassi finì con l’indicare, in modo particolare nel corso degli anno ottanta, quei sindacati che riuscivano ad organizzare un numero di lavoratori appena sufficiente.

Il sindacato comparativamente più rappresentativo è, invece, quell’organizzazione di interessi che, nel confronto con le altre associazioni della stessa natura, organizza un numero di lavoratori tale da poter essere legittimato a sedere al tavolo delle trattative.

Il riferimento, contenuto nel libro bianco, al sindacato comparativamente rappresentativo sembra sminuire il ruolo delle grandi associazioni, soprattutto di quelle Confederali – ed in particolare di una di esse accusata di perseguire intenti più politici che sindacali – in nome di un più accentuato pluralismo sindacale.

In verità, le organizzazioni di interessi più “piccole” sono indubbiamente notevolmente più numerose di quelle di più ampie dimensioni, ma organizzano un numero di lavoratori, nel complesso, minore; c’è il rischio, allora, che il contenuto del rapporto di lavoro sia frutto di un accordo raggiunto, non dalle associazioni effettivamente rappresentative di un gruppo consistente di lavoratori, ma da quelle che tutelano un numero di individui sufficiente a renderle “ un poco più grandi “ di altre.

Sarebbe questo, in definitiva, uno strumento per superare i veti posti da determinate organizzazioni sindacali attraverso l’appoggio della maggioranza delle altre, ancorché di minore capacità rappresentativa.

Ci lascia perplessi consentire che il sistema di relazioni industriali, sia gestito sulla base di una volontà delegata alle organizzazioni rappresentative di interessi da un gruppo minoritario di lavoratori.

Vi è, probabilmente, da parte del Governo l’intenzione di ridimensionare il ruolo dei sindacati, da un lato, riducendo l’influenza di quelli che dovrebbero fungere da indirizzo per gli altri, dall’altro, abbandonando, in nome del dialogo sociale di stampo comunitario,   la concertazione; la quale, come tutti abbiamo avuto modo di vedere, nel corso degli anni ottanta ha consentito, nel quadro della politica dei redditi, di ridurre l’inflazione, risanare la finanza pubblica, realizzare una stabilità economico – sociale, permettendo l’ingresso dell’Italia nell’Unione Europea attraverso l’adeguamento ai parametri di Maastricht.

Va precisato che il successo della concertazione è stato, di certo, determinato, oltre che dalla necessità per le parti sociali di addivenire a grandi accordi economici essenziali per adeguarsi  al nuovo sistema economico post – industriale, dalla tendenza a costituire governi tecnici bisognosi di un ampio consenso sociale e, perciò, pronti a favorire grandi intese tra le organizzazioni rappresentative degli interessi; ed è, in particolare, contro quest’ultima tendenza che i redattori del libro bianco puntano maggiormente il dito esaltando specularmente la nuova forma di contrattazione.

Il dialogo sociale di stampo comunitario, in verità, consentendo alle parti collettive di raggiungere accordi che vengono, in un secondo momento, recepiti in decisioni più o meno vincolanti degli organi dell’Unione, costituisce lo strumento per sopperire al deficit normativo in alcuni settori in cui, la legislazione comunitaria penetra con maggiori difficoltà.

Il modello di dialogo proposto consentirebbe, sull’esempio, dunque, di quello comunitario, di favorire l’incontro e la discussione tra le parti sociali – soltanto comparativamente rappresentative – su temi specifici individuati dal Governo con l’intento di provocare un accordo da recepire in una legge statale, ovvero, nella maggior parte dei casi, regionale; salva la possibilità per i singoli attori di modificare le regole, in tal modo fissate, attraverso la contrattazione inter – aziendale.

In mancanza dovrebbe essere, è superfluo dirlo, l’Esecutivo a colmare il vuoto normativo, salvi i casi di diretta competenza  regionale.

Senza voler esprimere giudizi di merito sul modello così proposto, ci sembra, tuttavia, necessario evidenziare che i redattori del libro bianco propongono un sistema di relazioni industriali ispirato ad un’assoluta precarietà, attraverso l’esaltazione della contrattazione individuale su quella collettivo – sociale il cui significato, sembra esser notevolmente ridimensionato.

Infatti, se è vero che alle associazioni sindacali è ancora riconosciuto il potere di contrattare il contenuto del rapporto di lavoro, è pur vero che, in caso di esito contrario, sarebbe legittimo l’intervento del governo, sia esso centrale, ovvero, regionale.

Peraltro, le organizzazioni rappresentative degli interessi non sarebbero libere di stabilire i grandi temi su cui concertare, ma dovrebbero dialogare su questioni specifiche proposte dal Governo al fine di raggiungere un’intesa; la quale, non essendo per quest’ultimo vincolante potrebbe esser, in ogni caso, disattesa.

Ci sembra evidente, allora, come la contrattazione sindacale, in questo contesto, smarrisca il fondamentale compito di creare consenso intorno all’azione dell’Esecutivo e ne acquisti un altro, ben più limitato, che si riduce quasi ad una mera conferma delle proposte del Governo, salva la possibilità di fornire proprie indicazioni.

Ai sindacati non resterebbe altra soluzione, per paralizzare proposte sconvenienti, che venire allo “scontro” aperto con l’Esecutivo; ma, anche in questo caso, gli ostacoli frapposti dalle organizzazioni dissenzienti potrebbero esser superati escludendole dal dialogo a vantaggio di quelle solo comparativamente rappresentative ed eventualmente disposte al confronto.

In definitiva, l’azione del Governo, in queste ipotesi, sarebbe legittimata dal consenso, non della maggioranza dei lavoratori iscritti al sindacato, ma della maggioranza delle organizzazioni rappresentative; anche se in grado di organizzare, nel complesso, un esiguo numero di lavoratori.

Anche qualora l’accordo sia, in qualunque modo, raggiunto dovrà esser recepito in una norma leggera; la quale, quindi, potrà esser, comunque, disattesa in sede di contrattazione individuale consentendo ai singoli attori di raggiungere, per altre vie, l’obiettivo fissato.

In definitiva, secondo i redattori del libro bianco, la crescita dell’occupazione è legata alla totale precarizzazione del rapporto di lavoro, nel quadro della totale liberalizzazione del mercato della domanda ed offerta di lavoro; la quale, dovrebbe esser gestita nella forma della intermediazione privata a discapito di quella pubblica, cui verrebbero affidati compiti residui (anagrafe; scheda professionale; controllo dello stato della disoccupazione involontaria, della sua durata e della erogazione dei sussidi di disoccupazione).

Tuttavia, ci si interroga sulle reali possibilità di crescita dell’occupazione in un sistema di relazioni industriali ispirato ad una totale precarizzazione, tale da consentire alle parti individuali di adeguare il contenuto del rapporto di lavoro alle proprie esigenze economiche.

La risposta potrebbe esser anche positiva, ma comporterebbe un caro prezzo da pagare in termini di rinuncia, dei propri diritti inviolabili come singolo e come membro della collettività (art. 2 Cost. ), da parte del lavoratore; il quale, pur di trovare occupazione, sarebbe disposto ad accettare qualunque schema contrattuale preparato dal datore; rischio che è insito, come abbiamo avuto modo di verificare, nella fattispecie del lavoro a chiamata.

Dubitiamo che sussista reale libertà di occupazione in un sistema in cui si riconosce al soggetto economicamente più forte il diritto stabilire il contenuto del rapporto, ancorché di comune accordo con la parte più debole, in maniera del tutto autonoma; l’accordo delle due volontà contrapposte è presupposto essenziale di ogni schema contrattuale ma, non è difficile immaginare che sarebbe, il più delle volte, frutto di ampie rinunce da parte del lavoratore.

Ci sembra scontrare con un moderno modello di stato sociale la previsione di un sistema di relazioni industriali, il quale fondi le proprie possibilità occupazionali sulla necessità per il lavoratore di accettare qualunque condizione posta dal datore.

Crediamo che le proposte di riforma del Governo siano da vagliare attentamente e senza pregiudiziali di carattere politico nella parte in cui propongono un sistema di mediazione del lavoro fondato sulla competitività tra le attuali strutture pubbliche e quelle private.

Tuttavia, riteniamo che la tutela del lavoro non possa fondarsi su una totale riduzione a compiti meramente esecutivi del servizio pubblico in nome di quello privato, e soprattutto, che necessiti di presupposti stabili e garanzie certe ed uguali, per ciascuna categoria produttiva, nel quadro di norme inderogabili, se non in senso più favorevole ad opera dell’autonomia collettiva, che abbiano la loro fonte nella legge statale.

Il riferimento all’autonomia collettiva deve essere sottolineato ed evidenziato per non dimenticare come la concertazione sindacale abbia consentito, e ancora consenta, di affrontare problematiche di grande impatto sociale attraverso una gestione diretta degli interessi collettivi; la quale impone ai governi, nel quadro di una costante opera di coesione sociale nel nome del lavoro, non di procedere da soli - ovvero con un gruppo minoritario di sindacati - verso le riforme, ma di incoraggiare, eventualmente con proprie proposte, le organizzazioni rappresentative degli interessi, a trovare un accordo idoneo a superare il conflitto che è alla base di ogni sistema di relazioni industriali.

 

Note bibliografiche

 

Alleva, Andreoni, Angiolini, Coccia, Naccari, Dignità e alienazione del lavoro nel Libro Bianco del Governo, in www.cgil.it/giuridico;

Id., La delega al Governo per il mercato del lavoro: un disegno autoritario nel metodo, eversivo nei contenuti, in www.cgil.it/giuridico;

Rocella, Il Governo Berlusconi e l’Europa. Primi appunti sul Libro Bianco,in www.cnel.it/giuridico;

Id, IL libro nero del liberismo, pubblicato ne l’Unità del 5 Ottobre 2001;

Rusciano, A proposito del Llibro Bianco sul lercato del lavoro in Italia, ( pubblica to dal Ministero nell’Ottobre del 2001 ), in www.unicz.it/lavoro/lavoro.htm;

si consiglia, altresì, la consultazione del Disegno di legge delega n. 848, presentato dal Governo al Senato della Repubblica il 15 Novembre 2001.