Il libro bianco e la “presunta” fede europeista. In particolare: la regionalizzazione del diritto del lavoro

Gianluca Faiella

 

Gli avvenimenti dell’11 Settembre hanno sconvolto il mondo intero facendo emergere ansie e preoccupazioni per un conflitto economico, sociale, religioso fino a quel momento rimaste nell’ombra.

Nulla sarà come prima dopo l’attentato terroristico alle Twin Towers di New York, si disse. E nulla, infatti, è stato più come prima!

L’economia mondiale si è risvegliata, dopo un periodo di apparente stasi, sotto il peso di una recessione economica, tanto avanzata, quanto fulminante, che ha investito – e sta investendo – non soltanto paesi del terzo mondo, o, comunque, da sempre esposti a questi momenti di collasso economico, ma anche paesi guida dell’economia mondiale come Stati Uniti e Giappone; nei quali, si cerca di allontanare lo spettro della crisi economica facendo ricorso  a riforme strutturali dell’intero sistema economico.

Anche il nostro paese  investito dall’onda d’urto della crisi, sebbene in misura minore, si è allineato ai progetti di riforma avanzati da più parti.

L’attuale Governo, in particolare ritiene necessario “ristrutturare” il mercato del lavoro il quale - secondo il Libro bianco di riforma del mercato del lavoro pubblicato dal Ministero del Welfare nell’Ottobre del 2001 – deve esser improntato ad una maggiore competitività a livello internazionale e, innanzitutto, europeo, nel quadro delle guide lines indicate dagli organi comunitari.

Il libro bianco ha una fede europeista a detta dei suoi redattori, i quali enfatizzano il contenuto degli Orientamenti espressi,  in materia di occupazione, dalle istituzioni comunitarie; questi orientamenti sono ritenuti, nel libro bianco, fonte di vincoli per i singoli stati membri.

Secondo gli organi dell’Unione, allora, la regolamentazione comunitaria del lavoro interinale, deve esser tale da tenere convenientemente in considerazione le peculiarità dei differenti sistemi nazionali, non essendo necessario realizzare un’uniformità di disciplina su scala transnazionale; soprattutto alla luce del Trattato di Nizza che escluderebbe interventi diretti ad armonizzare le legislazioni nazionali nell’area della politica sociale.

In verità, ci sembra quantomeno strano che le istituzioni dell’Unione intendano portare avanti una politica comunitaria incentrata sulla regolamentazione autonoma dei singoli stati, piuttosto che sulla promozione di accordi transnazionali.

E’ vero che una legislazione comunitaria che riducesse, fino ad azzerarli, gli spazi di intervento del legislatore nazionale, si scontrerebbe con le peculiari tradizioni dei singoli popoli, tuttavia, sminuire il ruolo degli organi dell’Unione in nome del “nazionalismo” e dell’“individualismo” politico, significherebbe voltare le spalle a tutto quel processo di europeizzazione iniziato cinquant’anni or sono e culminato con l’istituzione di un’unica moneta di scambio.

Questa è, senza ombra di dubbio, una manifestazione di grande civiltà da parte di popoli diversi che hanno deciso, non di mettere da parte le rispettive tradizioni, ma di ricomporle in un’unica grande “organizzazione” sociale, politica, economica nata per assicurare i diritti di tutti gli stati membri; senza dimenticare le peculiarità che caratterizzano le singole realtà nazionali.

E’ discutibile, poi, la natura vincolante degli Orientamenti espressi dagli organi comunitari, i quali, pur confluendo in una decisione del Consiglio d’Europa, hanno per lo più una funzione di indirizzo; soprattutto quando, come nel caso degli orientamenti espressi in materia di occupazione, sono rivolti, non ad uno, ma a tutti gli stati membri.

Sembra strano, per la verità, che i redattori del libro bianco, prima enfatizzino la natura vincolante dei suddetti orientamenti, e, poi, propongano un progetto che non corrisponde alla volontà, al contrario travisata, degli organi che li hanno espressi.

A ben vedere, dal libro bianco emerge la tendenza dell’attuale Governo a sviluppare un progetto politico, almeno nel settore dell’occupazione, che tenga conto, non solo dell’autonomia e dell’identità nazionale – in luogo di una costante progettazione su scala transnazionale - ma addirittura di quella regionale.

Il progetto federalista dell’attuale maggioranza politica muove i passi dalla l. Cost. 3/2001, approvata nel corso della precedente legislatura e sottoposta a referendum confermativo, la quale, in materia di occupazione, attribuisce alle regioni potestà legislativa, concorrente con quella stato, in merito alla “…sicurezza e tutela del lavoro…”. 

L’utilizzo, in particolare di quest’ultima formula si presta, per la verità ad una pluralità di interpretazioni.

Secondo un primo indirizzo, il legislatore ha inteso trasferire alle regioni, in materia di rapporto di lavoro, competenza legislativa la quale, dunque, dovrebbe estendersi a tutte le misure necessarie a incentivare l’occupazione e a favorirne l’incontro di domanda e offerta; altrimenti, è stato detto, non avrebbe avuto senso approvare una legge costituzionale che, in realtà, non cambia alcunché.

Secondo un altro indirizzo, la competenza regionale, seppur riconosciuta dal legislatore costituzionale, sarebbe, in ogni caso, limitata dalla circostanza che la legislazione in materia di ordinamento civile, la quale abbraccia anche la regolamentazione del rapporto di lavoro, è ancora attribuita, in via esclusiva, allo stato.

Secondo un ulteriore interpretazione, che legge la riforma costituzionale in maniera più ampia ed elastica, la competenza concorrente delle regioni potrebbe estendersi anche alla regolamentazione del rapporto di lavoro e dei diritti da esso derivanti, ma al fine di rafforzare le tutela a favore del lavoratore.

La riforma federalista proposta dall’Esecutivo in materia di occupazione si presta, in verità, ad una serie di rilievi.

Innanzitutto, la riserva di competenza statale in materia di ordinamento civile copre, senza ombra di dubbio, anche le questioni interenti il rapporto di lavoro, che, per sua natura, si fonda su una relazione, di tipo privatistico, intercorrente tra soggetti che sono posti, almeno dal punto di vista formale, sullo stesso piano; la Corte Costituzionale, peraltro, ha sostenuto, senza rilevanti cambiamenti di opinione, questo orientamento.

Il legislatore, anzi, ha costantemente sostenuto un orientamento ancor più rigoroso, avanzato dalla stessa Consulta, secondo cui, la giurisdizione e l’ordinamento civile sono materie differenti, per sostanza e per struttura, da quelle attribuibili ed attribuite alla potestà concorrente delle regioni; la quale, quindi, non può concernere la disciplina del contratto di lavoro che, quindi, resta regolato dalla contrattazione collettiva nei limiti della inderogabilità delle norme di legge.

Inoltre, una regionalizzazione del diritto del lavoro avrebbe come conseguenza la frammentarizzazione, nelle varie aree geografiche del paese, di una disciplina, che, al contrario, strutturalmente necessita di presupposti e di garanzie uguali per tutti; è pericoloso prevedere che un lavoratore possa godere di determinate garanzie in una regione piuttosto che in un’altra; ciò comporterebbe, in breve tempo, un flusso migratorio verso quelle aree in grado di garantire e sostenere in maniera più efficace l’occupazione.

A proposito delle aree geografiche, non va dimenticato che, almeno dal punto di vista dell’occupazione, il nostro paese, in realtà, non risulta perfettamente diviso nelle regioni individuate dalla Costituzione; solo da un punto di vista culturale e  delle tradizioni possiamo dire che i confini regionali risultano perfettamente tracciati.

C’è il rischio, allora, che la riforma federalista del Governo abbia quale conseguenza, non tanto la realizzazione di quella autonomia regionale - tanto utilizzata come manifesto di propaganda politica – quanto la divisione del paese, almeno nel settore del diritto del lavoro, in aree geografiche, più o meno ampie, comprendenti regioni individuate sulla base di ben definiti sistemi economico – industriali.

In questo quadro, paventiamo il rischio che l’attribuzione alle regioni di potestà legislativa relativa anche alle misure necessarie a sostenere l’occupazione, contribuisca ad aumentare le differenze e le distanze economiche – anziché ricomporle -  tra le varie aree del paese, consentendo a quelle con capacità produttive attualmente più sviluppate, di avanzare ulteriormente il passo a discapito di quelle la cui economia si fonda, per lo più, sulla piccola impresa per lo più, a carattere familiare; un distacco che sarebbe reso ancor più evidente e netto dal riconoscimento alle regioni di autonomia finanziaria, che costituisce un caposaldo della riforma federalista.

In verità, ci sembra che la tutela del lavoro passi, non per la regionalizzazione della relativa disciplina, ma, piuttosto, per una serie di riforme sostanziali dirette, da un lato, a valorizzare competenze e conoscenze dell’individuo che produce con la propria forza lavoro, dall’altro, a rafforzare le attuali strutture di mediazione della domanda e dell’offerta di lavoro – a cominciare da quelle pubbliche senza, tuttavia, trascurare le potenzialità di quelle private; il tutto in una prospettiva di unità, non certo di frammentarietà, del diritto del lavoro.

Una disciplina del lavoro diversificata per aree, infatti, comporterebbe l’espansione dell’attività produttiva di quelle zone, già avviate dal punto di vista economico – imprenditoriale, mentre le aree depresse vedrebbero moltiplicate le loro difficoltà di incremento della produzione, non solo da problemi strutturali ormai cronici – che anzi aumenterebbero in virtù del riconoscimento dell’autonomia finanziaria – ma anche dalla “fuga” della manodopera verso “oasi felici”; fenomeno che, alla lunga, avrebbe come conseguenza un aumento della disoccupazione, in modo particolare, nelle regioni in cui, già oggi, la ricerca di lavoro si presenta ricca di ostacoli.

Al contrario, la regionalizzazione dovrebbe riguardare l’amministrazione delle tutele del lavoro che necessita, nel quadro di un deciso superamento delle distanze tra pubblica amministrazione e cittadino, di un ampio decentramento in materia, innanzitutto, di formazione professionale; la quale, dovrebbe garantire al disoccupato, ovvero, a chi è in cerca di prima occupazione, di reggere l’impatto con la logica di un mercato che si avvia, ormai, verso una completa globalizzazione.

E’, altresì, necessario rivedere la disciplina degli ammortizzatori sociali, nel quadro di una maggiore stabilità ed effettività che consentano, a chi attualmente non lavora, di affrontare in maniera dignitosa e decorosa i problemi connessi alle gravi crisi occupazionali.

Gli ammortizzatori sociali, infatti, costituiscono, ancora oggi, una sorta di sussidio che, non solo, difficilmente consente al disoccupato di porre rimedio alla propria situazione economico – sociale, ma, il più delle volte, rappresentano per i richiedenti un miraggio nel deserto della, tanto abbondante, quanto spesso inutile, burocrazia italiana.

Queste ci sembrano le più immediate riforme che dovrebbero esser attribuite alle competenza delle regioni, nella prospettiva di una puntuale attuazione della legge statale, in materia di sostegno ed incentivazione dell’occupazione, diretta ad eliminare tutti gli ostacoli, a cominciare da quelli di ordine burocratico, che rendono difficile la ricerca ed il mantenimento di un’attività dignitosa.    

 

 

Note bibliografiche

 

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Rocella, Il libro nero del liberismo, pubblicato ne l’Unità del 5 Ottobre 2001;

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