La
soluzione pacifica delle controversie
internazionali
e le contromisure.
Michela Tallarico
1.- GLI
OBBLIGHI PREVISTI DALLA CARTA O.N.U..
La fase
patologica dei rapporti tra Stati è disciplinata dal diritto
internazionale in modo tale da evitare il ricorso alla forza
armata come possibile strumento risolutorio. Questa volontà
della comunità internazionale di prevenire la degenerazione di
un rapporto in conflitto, si esplica attraverso limposizione
di limiti di natura giuridica al discrezionale operato degli
Stati in tale settore.
In questo
senso, la Carta delle Nazioni Unite detta una serie di
disposizioni di natura vincolante dirette a regolare lazione
degli Stati nel caso in cui essi siano parti di una controversia.
Nellenunciare i fini e i principi dellOrganizzazione,
lo statuto, nel suo art. 2.3, afferma che:
I
Membri devono risolvere le loro controversie internazionali con
mezzi pacifici, in maniera che la pace, la sicurezza e la
giustizia internazionale non siano messe in pericolo.
Questo
obbligo di natura generale ha poi una successiva elaborazione nel
capitolo VI della Carta, deputato al regolamento delle
controversie internazionali con mezzi pacifici. Secondo quanto
previsto dallart. 33.1: Le parti di una controversia,
la cui continuazione sia suscettibile di mettere in pericolo il
mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, devono
anzitutto perseguirne una soluzione mediante negoziato, inchiesta,
mediazione, conciliazione, arbitrato, regolamento giudiziario,
ricorso ad organizzazioni o accordi regionali, o altri mezzi
pacifici di loro scelta.
Buona parte
della dottrina sostiene che questa disposizione costituisca
semplicemente una elaborazione più dettagliata della previsione
già contenuta nellart. 2.3. In realtà la discrepanza
letterale riscontrabile tra le due disposizioni è un chiaro
indice di una voluta diversità di funzione tra le due discipline.
Lart.
2.3 pone a carico degli Stati un obbligo generale di provvedere
alla soluzione delle proprie controversie attraverso mezzi
pacifici, enunciandolo in maniera tale da renderlo applicabile a
tutte le controversie indipendentemente dal loro livello di
gravità e pericolosità. La disposizione, inoltre, si preoccupa
di rendere lobbligo più specifico, dettando ulteriori
vincoli alloperato degli Stati. Essa richiede lutilizzo
di mezzi pacifici, nonché il divieto di intraprendere azioni
per la soluzione della fattispecie che siano in
grado di pregiudicare lo status di pace e di sicurezza
internazionale. In modo più specifico, invece, lart. 33.1
rivolge il suo interesse a quella particolare categoria di
controversie internazionali che potrebbe riflettere i propri
effetti dannosi sullo scenario internazionale (1).
Per meglio
comprendere questa diversità tra i due casi di specie, è
necessario interpretare queste disposizioni alla luce dellintero
sistema operativo creato con la Carta di San Francisco. Prima
facie, la norma dellart. 33.1 potrebbe apparire come
una mera ripetizione di un obbligo già contenuto nella
disposizione generale di cui allart. 2.3. In realtà lart.
33.1 soddisfa una funzione giuridica determinante, poiché
costituisce la norma di collegamento tra la primaria
responsabilità degli Stati in materia di controversie e il ruolo
di garante della pace e della sicurezza internazionale affidato
allONU nel suo insieme.
Questo
articolo infatti, insieme con gli artt. 37 e 38, determina quel
momento, nelliter storico di una controversia, in
cui il Consiglio di Sicurezza ha la facoltà di esercitare i
poteri che gli sono conferiti dal capitolo VI. Si chiarisce,
quindi, che il ruolo predominante è affidato agli Stati parti
della controversia; essi, a norma dellart. 2.3, sono tenuti
ad utilizzare metodi pacifici per la soluzione di queste
fattispecie. Nel caso in cui la controversia sia tale da poter
pregiudicare la pace internazionale, gli Stati mantengono la
piena gestione della fase iniziale, a loro compete infatti un
tentativo di soluzione pacifica della questione (2). Se si
verifica un fallimento di questi sforzi preventivi, la
fattispecie descritta è tale da permettere un intervento degli
organi dellOrganizzazione (3). La responsabilità delle
Nazioni Unite si materializza, quindi, solo nel momento in cui la
pace e la sicurezza internazionale sono minacciate dagli effetti
collaterali di una controversia tra Stati (4).
Nessun
dubbio può sorgere circa la natura vincolante delle norme degli
artt. 33 e 2.3. E imposto alle parti uno sforzo effettivo
al fine di pervenire ad una pacifica definizione della questione
(5).
Una parte
della dottrina sostiene che questo obbligo costituisca un mero
corollario del divieto alluso della forza contenuto nellart.
2.4 (6). La lettera delle disposizioni citate chiarisce che la
portata obbligatoria di questo vincolo giuridico possiede una
sostanza tutta propria. Alle parti è richiesto un comportamento
effettivo diretto allo scopo indicato. La norma non richiede
esplicitamente il raggiungimento del risultato auspicato ma è
certo che un mero comportamento passivo (per sua natura
perfettamente compatibile con il divieto alluso della forza)
integra una violazione degli artt. 33 e 2.3 (7).
Dal punto di
vista strettamente giuridico, la fattispecie analizzata è
definibile come un obbligo di condotta, il quale richiede al
soggetto attivo della norma (lo Stato in questo caso) un
determinato comportamento, a prescindere da una valutazione dellefficacia
del risultato ottenuto (8). La ratio di questa normativa
è basata su una semplice considerazione di fatto. Poiché una
controversia internazionale coinvolge almeno due Stati egualmente
sovrani, nessuno dei due può imporre la sua politica allaltro.
Alle parti è quindi richiesto di trovare un comune denominatore,
sia per quanto concerne il momento procedurale che per quello
sostanziale. Spesso però, nonostante la buona fede, le due
visioni sono così divergenti da non consentire un automatico
successo della procedura. E per questo che lordinamento
internazionale può imporre agli Stati soltanto un impegno nelle
trattative, senza pretendere il raggiungimento di un risultato
sostanziale (9).
1.1.
Portata dellobbligo ratione personae.
Lart.
33 non definisce in modo preciso i soggetti destinatari di questo
obbligo. Il generico riferimento alle parti di una
controversia non permette di comprendere ratione
personae leffettiva estensione obbligatoria di questa
norma.
Possiamo
affermare con sicurezza che i principali destinatari di questo
obbligo sono gli Stati membri dellOrganizzazione. La Carta
ONU è infatti certamente un trattato multilaterale che impegna
le parti contraenti al rispetto delle norme in esso contenute.
Inoltre, benché dotata di essenza propria, questa disposizione
è riconducibile alla previsione dellart. 2.3 la quale pone
espressamente questo obbligo a carico dei membri.
Bisogna
altresì considerare che, secondo quanto affermato dalla Corte
internazionale di giustizia, questo principio ha ormai assunto la
natura di norma consuetudinaria, vincolante quindi per tutti gli
Stati della comunità internazionale indipendentemente dal loro status
di membri ONU (10).
Inoltre,
poiché lart. 33 coinvolge anche la responsabilità dellOrganizzazione
in questo settore, si deve ritenere che lobbligo di
pervenire ad un regolamento pacifico delle controversie
internazionali sia vincolante anche per gli organi delle Nazioni
Unite.
1.2.
Portata dellobbligo ratione materiae.
Ratione
materiae, la disciplina prevista da queste disposizioni è
limitata alle sole controversie. Gli artt. 33 e 2.3 non prevedono
lipotesi delle situazioni di cui agli artt. 34
e 36. La ratio di questa diversità è giustificata dalla
impossibilità di applicare le procedure previste dallart.
33 a queste specifiche fattispecie. Il generale stato di tensione
che caratterizza queste ultime, non consente infatti di
individuare in maniera precisa quelle posizioni delle parti che
sono elemento necessario per consentire lutilizzo delle
procedure previste dallart. 33.
Nonostante
le disposizioni citate non forniscano una definizione di
controversia, si deve ritenere che le fattispecie di chiara
natura interna siano escluse da questa disciplina. La limitazione
di competenza prevista dallart. 2.7, infatti, impedisce allOrganizzazione
di intervenire a norma del capitolo VI.
1.3.
Contenuto dellobbligo.
Lart.
33 detta una serie di procedure destinate al regolamento pacifico
delle controversie internazionali. E determinante
comprendere la natura giuridica di questa elencazione.
Come detto
in precedenza, il comportamento richiesto agli Stati si sostanzia
nella necessità di provvedere al regolamento della fattispecie
attraverso lutilizzo di strumenti non implicanti luso
della forza. Per questa ragione vengono indicate alle parti
dallart. 33 quelle procedure che la dottrina
e la prassi internazionale ritengono più idonee allo scopo.
Questa elencazione non ha quindi la pretesa di essere esaustiva,
né tanto indica una successione graduale da rispettare (11). Le
parti conservano sempre la libertà di scegliere il mezzo più
adatto alla questione, ad eccezione del caso in cui esse si siano
impegnate in via convenzionale a ricorrere ad un determinato
strumento (12).
La condotta
imposta agli Stati non è quindi caratterizzata dalla presenza di
schemi rigidi. Essi possono utilizzare procedure atipiche o
riesumare strumenti falliti in precedenza, purché continuino
nellopera intrapresa.
2.- LE
CONTROMISURE.
Si ritiene
in genere che anche nel diritto internazionale, così come nel
diritto interno, i rapporti tra i soggetti giuridici siano
essenzialmente di carattere bilaterale (13). Nellambito
specifico della prevenzione dei conflitti, questa definizione
appare abbastanza veritiera. Se, infatti, si analizza la prassi
internazionale in materia, diviene evidente che nella maggior
parte dei casi la fattispecie conflittuale ha avuto origine da
una qualche erosione della relazione esistente tra due Stati. Nel
momento della crisi, il rapporto bilaterale genera, per sua
natura, una mescolanza di azioni e reazioni, riflesso tipico di
una relazione costruita sul binomio diritto-obbligo. Poiché la
politica mondiale non costituisce eccezione a questa teoria, è
necessario valutare queste conseguenze alla luce del diritto
internazionale.
In relazione
a quanto affermato, risulta determinante per questa analisi
comprendere la legittimità di quella forma tipica di reazione
conosciuta in diritto come contromisura. In particolare, occorre
definirne la compatibilità con quanto previsto dagli artt. 2.3 e
33 della Carta ONU.
* *
*
Nel diritto
internazionale generale, il termine contromisura
indica il comportamento in sé illecito di uno Stato, attuato in
risposta ad un asserito comportamento illecito altrui. In questo
senso, lessere conseguenza di unazione illecita
altrui opera come causa di giustificazione dellilliceità
del comportamento dello Stato offeso.
La
contromisura, in quanto conseguenza negativa connessa ad un fatto
illecito, è ricompresa nel generale concetto di sanzione. Il
fine afflittivo di questa fattispecie, che si sostanzia in una
diminuzione di beni giuridici del soggetto responsabile (14), ben
rappresenta quella funzione di garanzia del diritto che è
attribuita in genere alla sanzione. La dottrina che sostiene lintima
connessione tra il fenomeno giuridico e lelemento
coercitivo, riconosce anche nella contromisura lessenza di
uno strumento deputato ad impedire la violazione della norma e
garantire così losservanza del diritto (15).
Nellattuale
dottrina e prassi internazionale si è diffusa la tendenza a
specificare i singoli termini in relazione allambito
normativo e soggettivo in cui tali misure vengono comminate (16).
Per questo si parla di sanzione nel caso di misure collettive
decise o raccomandate da organi internazionali. Si preferisce,
invece, far ricorso al termine contromisura o al più
antico rappresaglia o ritorsione per indicare le misure
adottate nei rapporti diretti tra lo Stato leso e lo Stato autore
della lesione (17).
Il diritto
internazionale generale ammette il ricorso a contromisure
pacifiche, concedendo la facoltà ad un soggetto internazionale,
che venga leso in un suo diritto correlativo ad un obbligo la cui
violazione dia luogo ad un rapporto bilaterale, di adottare
lecitamente nei confronti dello Stato offensore un unazione
di rappresaglia (18). A conferma di ciò, la Commissione per il
diritto internazionale (CDI) ha accolto le contromisure come
cause di esclusione dellillecito. Lart. 30 della
prima parte del progetto di articoli sulla responsabilità degli
Stati afferma: The wrongfulness of an act of a State not
in conformity with an obligation of that State towards another
State is precluded if the act constitutes a measure legitimate
under international law against that other State, in consequence
of an internationally wrongful act of that other State.
(19)
Questo
principio, più volte sostenuto anche in giurisprudenza (20), ha
subito in passato forti critiche soprattutto dallUnione
Sovietica, in occasione delle contromisure adottate dagli Stati
Uniti contro lIran. Essa sosteneva lilliceità dellazione
statunitense sulla base di una presunta competenza esclusiva del
Consiglio di Sicurezza in materia. Secondo una letterale
interpretazione dellart. 41 della Carta ONU, ladozione
di qualsiasi contromisura pacifica doveva ritenersi condizionata
ad una previa autorizzazione del Consiglio. La soluzione di
questa questione, però, dipende essenzialmente dalla prospettiva
nella quale linterprete si pone. Come già affermato,
secondo il diritto internazionale generale lo Stato ha la facoltà
di porre in essere una contromisura in seguito ad una lesione
subita. Se invece ci si pone nella prospettiva del sistema ONU è
chiaro che lo Stato membro, in virtù degli impegni assunti con
la ratifica della Carta, sarà tenuto ad applicare leventuale
misura dettata dal Consiglio ex art. 41. Al di fuori del
contenuto normativo di una decisione vincolante del Consiglio,
gli Stati membri restano comunque sempre titolari del diritto a
reagire con contromisure diverse in base al diritto
internazionale generale (21).
Chiarito che
nel diritto internazionale odierno la liceità della rappresaglia
non è contestabile, in linea di principio, quale garanzia di
norme internazionali, occorre definire le caratteristiche che
questa misura deve possedere:
a)
Deve trattarsi di unazione di carattere pacifico. Le
contromisure armate rientrano, infatti, nel generale divieto delluso
della forza enunciato dallart. 2.4. della Carta ONU. La
dottrina è concorde nel sostenere che questo articolo, nonché
le affermazioni fatte in successivi atti internazionali,
escludano in modo categorico la possibilità di ricorrere ad una
rappresaglia armata (22). Lunica eccezione prevista in
questo senso dalla Carta è costituita dalla legittima difesa
disciplinata dallart. 51, che consente allo Stato vittima
di un attacco armato di reagire attraverso luso delle armi
(23). Nonostante lintenzione dei redattori della Carta
emerga con chiarezza dalle sue disposizioni, una parte della
dottrina ha tentato di giustificare un approccio più
interventista alla questione sulla base di un presunto totale
fallimento del sistema di sicurezza collettiva creato a San
Francisco. Secondo questo pensiero, il mancato funzionamento del
sistema avrebbe generato unautomatica estensione del
concetto di self-defence a tutte le ipotesi di grave
emergenza, anche se determinate da un fatto diverso dallattacco
armato; si giustificherebbe così anche una eventuale
rappresaglia armata (24). Ci si è interrogati sulla possibilità
di ricomprendere anche le misure coercitive di natura politico-economica
nel generale divieto della rappresaglia armata. Lart. 2.4
non fornisce una precisa definizione di forza ma successivi atti
internazionali sembrano essere orientati in tal senso (25). Alla
luce di questi ultimi, si può ritenere che le rappresaglie
politiche, economiche (o di altra natura) non conformi al diritto
internazionale, siano quelle che possono attentare ai diritti
sovrani di uno Stato, senza avere come effetto principale la
riaffermazione della legalità internazionale (26).
b)
La contromisura deve poi rispettare un criterio di proporzionalità
rispetto alla lesione subita. Questa necessità è stata anche
espressa dalla CDI, che allart. 49 della seconda parte del
progetto ha affermato che leffetto della contromisura
non deve essere manifestamente sproporzionato rispetto alla
gravità dellillecito internazionale commesso (27).
Questo requisito va comunque valutato nel caso concreto, data la
difficoltà di stabilire dei criteri astratti, soprattutto in
quei casi in cui la violazione e la reazione ad essa abbiano
natura palesemente diversa (28).
c)
Per ciò che concerne il contenuto, la contromisura deve
rispettare le norme di jus cogens, nonché più in
generale il diritto umanitario, sia quelle norme che limitano la
violenza nel diritto bellico sia quelle che tutelano i diritti
delluomo (29).
La
legittimazione attiva alladozione di contromisure spetta,
ovviamente, allo Stato che ha subito la lesione. Negli ultimi
anni si è andata affermando una prassi relativa allesercizio
di contromisure pacifiche da parte di soggetti apparentemente
terzi rispetto alla violazione. E accaduto,
infatti, che vari Stati e organizzazioni internazionali abbiano
reagito ad illeciti particolarmente gravi anche se non ne
risultassero lesi nel senso proprio del termine (30).
La dottrina
tradizionale ha giustificato tali azioni affermando la natura erga
omnes degli obblighi violati. Si tratta, cioè, di norme
internazionali che non istituiscono dei meri rapporti bilaterali
ma creano una situazione giuridica in capo a tutti gli esponenti
della comunità internazionale. Lillecito perpetrato a
danno di queste disposizioni autorizza i singoli membri della
collettività alla reazione nei confronti dello Stato
inadempiente (31). Non si tratta però del riconoscimento di una
sorta di actio popularis, perché non si agisce a tutela
di un interesse generale al rispetto della norma nei confronti
degli altri Stati. Il fondamento giuridico dellazione
è invece da ricercare nella indivisibilità di certi obblighi,
che discende dal contenuto degli obblighi medesimi. La
contromisura è quindi espressione della tutela di un proprio
diritto di contenuto uguale a quello degli altri Stati
non si può quindi definire terzo il soggetto
agente (32).
Focarelli
critica questa costruzione concettuale, che tenta di ricondurre
una prassi palesemente interventista nei canoni del
binomio diritto-obbligo. Egli sostiene, invece, la necessità di
distinguere tra contromisure individuali e contromisure
collettive. Le prime, vengono adottate in risposta alla
violazione di un obbligo che lo Stato offensore era tenuto a
rispettare in virtù di una relazione bilaterale. La liceità
delle seconde, invece, non è giustificata dalla presunta natura erga
omnes dellobbligo violato ma è determinata dalla
particolare sostanza dellillecito perpetrato. Si tratta di
particolari figure di illecito, apparentemente riconducibili alla
figura dei crimini internazionali. Lautore, però,
sostiene limpossibilità di attribuire a questa definizione
un significato giuridico chiaro, in quanto le fattispecie
indicate sono insuscettibili di precisa classificazione potendo
essere dedotte soltanto dallanalisi della prassi
internazionale (33).
3.
Rapporto tra le contromisure e i mezzi di soluzione pacifica
delle controversie internazionali.
Compresa la
natura giuridica delle contromisure e ammessa la loro astratta
compatibilità con le previsioni della Carta ONU, ci si deve
interrogare sul rapporto esistente tra queste fattispecie e i
mezzi di soluzione pacifica delle controversie internazionali
indicati dalla Carta. Questa valutazione consente di comprendere
il meccanismo operativo di quella che si potrebbe definire procedura
giuridica preventiva, attraverso la definizione degli
obblighi e dei limiti giuridici che il diritto internazionale
impone alle azioni dirette alla prevenzione di un conflitto
internazionale.
In primis,
occorre sottolineare che tra gli adempimenti preventivi richiesti,
affinché la contromisura sia considerata lecita, vi è
sicuramente la richiesta di riparazione. La rappresaglia sarà
possibile soltanto nel momento in cui lo Stato offensore abbia,
implicitamente o esplicitamente, rifiutato la richiesta della
parte lesa di prestare la riparazione dovuta (34). Questa
affermazione è il frutto di una visione che suole ricondurre la
contromisura tra le conseguenze giuridiche di un illecito. In
questo senso, dalla commissione di un illecito internazionale
nasce così come avviene nellordinamento interno
il diritto dello Stato offeso di pretendere, e lobbligo
per lo Stato offensore di prestare, unadeguata riparazione
(restitutio in integrum e risarcimento del danno materiale
o soddisfazione del danno morale) (35). Tale impostazione non è
condivisa da chi, come Kelsen, non accetta il ricorso ad una
costruzione concettuale in termini di diritto-obbligo. Egli non
riconosce lesistenza di un rapporto giuridico tra lo Stato
offeso e lo Stato autore della lesione. Ritiene, infatti, che lunica
ed immediata conseguenza di un atto illecito sia lautotutela
e leventuale necessità di riparazione non può che avere
una natura convenzionale. Tali misure di autotutela, non essendo
inquadrabili nella logica obbligo-diritto, possiedono le
caratteristiche di unazione coercitiva, simile allesecuzione
forzata nel diritto interno (hanno cioè natura comune anche se
non presentano le medesime caratteristiche giuridiche). Conforti
condivide questo pensiero, riconoscendo nella contromisura il
consueto elemento sanzionatorio che si accompagna alla violazione
di una norma. Infatti, in un ordinamento giuridico primitivo come
quello creato dal diritto internazionale, la fase patologica è
basata su una serie di reazioni che non possiedono una struttura
normativa certa. Se anche si vuole definire tale meccanismo di
azione-reazione come obbligo di uno Stato di porre fine allillecito
e diritto dellaltro di ricorrere allautotutela
non è dato riscontrare, secondo lautore, la nascita di un
rapporto giuridico tra lo Stato leso e lo Stato autore della
lesione. In questo contesto, lautotutela rappresenta
semplicemente la volontà di ristabilire lordine violato
attraverso la cessazione dellillecito e la cancellazione
se possibile degli effetti (36).
Alla luce di
queste considerazioni preliminari, si comprende la difficoltà
con la quale ci si muove in un settore ancora dominato da forti
contrasti interpretativi. Di conseguenza la definizione di una
procedura giuridica preventiva, in assenza di un dato
positivo certo di riferimento, non può che basarsi su unanalisi
della pratica degli Stati in tale ambito, valutata alla luce
delle diverse opinioni dottrinarie.
Questione
ampiamente dibattuta in dottrina è quella riguardante lesistenza
o meno di un obbligo procedurale di previo esperimento dei mezzi
pacifici di soluzione delle controversie, prima di ricorrere alladozione
di una contromisura. La CDI, nella redazione della seconda parte
del progetto di articoli relativi alla responsabilità degli
Stati, ha ampiamente discusso largomento, costretta a
rivedere di continuo le proprie posizioni in relazione alle
critiche mosse da diversi Stati. Prima però di analizzare i
progressi compiuti in questo settore dalla CDI il cui
compito istituzionale non si limita alla codificazione del diritto
esistente in materia ma si estende alla volontà di pervenire ad
un progressivo sviluppo del diritto internazionale è
necessario valutare lopinione di quegli autori che basano
la propria analisi esclusivamente su una interpretazione della
prassi internazionale alla luce delle norme in vigore.
In effetti,
da una sommaria verifica della pratica degli Stati, si evince
come essi siano propensi a svolgere una qualche attività di
carattere spiccatamente negoziale, seppur in senso lato, prima di
dare attuazione alle contromisure (37). Compito del giurista è
quello di comprendere se tali modalità operative rispondano al
convincimento dello Stato di adeguarsi ad un obbligo giuridico
esistente o siano semplicemente dettati da esigenze di natura
diversa.
Il
principale dato positivo di riferimento è sicuramente costituito
dallart. 2.3 della Carta ONU. Lobbligo, che ha ormai
assunto la natura di regola consuetudinaria, che questa norma
impone, si sostanzia nella necessità per lo Stato di risolvere
con mezzi pacifici la propria controversia. Il mancato richiamo
della norma ad un qualsiasi obbligo procedurale di previo
esperimento di procedure pacifiche determinate e in
particolare il mancato legame con lart. 33 ha
indotto una parte della dottrina a sostenere linesistenza
di un tale vincolo (38). Poiché le contromisure ammesse dal
diritto internazionale generale sono pacifiche, non sembra che
esse ricadano nel divieto imposto dalla norma. Tanto più che
anche se si volesse ammettere lesistenza di un legame
implicito tra lart. 2.3 e lart. 33, non basterebbe
questa considerazione ad imporre una priorità degli strumenti da
esso previsti rispetto alladozione di pacifiche
contromisure. Si è già affermato infatti che lelencazione
contenuta nellart. 33 non è vincolante per gli Stati, lunico
limite giuridico che essi incontrano nel loro operato è la
necessaria natura pacifica dello strumento da utilizzare. I
sostenitori di questa interpretazione, ritengono invece che la
giustificazione reale alle attività procedurali preventive
svolte dagli Stati, sia da ricercare in motivazioni extra-giuridiche,
di natura politica o semplicemente economica (39).
Per ciò che
concerne lanalisi svolta in materia dalla CDI, i suoi
lavori sono stati caratterizzati dallo scontro tra la volontà di
andare aldilà di una mera codificazione della prassi
internazionale e lopinione di quei giuristi che non
condividono limposizione di forti limiti alloperare
dello Stato nel settore dellautotutela. Lapprovazione,
in prima lettura, dellart. 48 della seconda parte del
progetto, che disciplina appunto le condizioni preliminari alladozione
di contromisure, è stata il frutto di un lungo iter di
modifiche e revisioni. Tale processo ha generato una normativa
in grado di contemperare la volontà degli Stati di mantenere la
facoltà di ricorrere alle contromisure, con la previsione di
limiti giuridici tali da riportate la primitiva autotutela nelle
maglie della legalità internazionale.
Levoluzione
storica di tale disciplina prende le mosse dalla proposta del
relatore Riphagen, basata su una concezione piuttosto restrittiva
della questione: No counter-measure shall be taken by
the injured States prior to the exhaustion of all the amicable
settlement procedures available under general international law,
the United Nations Charter and any other dispute settlement
instrument to which it is a party, resa ancor più
complessa da un meccanismo di doppia notificazione,
la prima concernente le pretese dello Stato leso e laltra lindicazione
delle contromisure da adottare (40). I contrasti che tale
proposta sollevò indussero la Commissione a riavvicinare la
normativa ad una concezione più tradizionale, che fosse in grado
di conciliare le divergenti opinioni degli Stati. Il successivo rapporteur,
Arangio-Ruiz, ha svolto unacuta analisi della questione,
riconoscendo la necessità di non privare gli Stati lesi della
facoltà, che il diritto consuetudinario riconosce loro, di
adottare contromisure a salvaguardia delle violazioni subite.
Determinante appare invece la possibilità che tale facoltà sia
limitata da vincoli procedurali imposti dal diritto. In questa
ottica, il previo esaurimento dei sistemi di regolamento indicati
sia dalle norma consuetudinarie che da quelle pattizie,
costituisce garanzia che lo Stato non ricorrerà ad una
rappresaglia se non come extrema ratio. Lobbligo
procedurale diviene in questo senso concreto, poiché lo Stato
deve impegnarsi in una attività effettiva. Altresì determinante,
risulta la necessità di fornire adeguata comunicazione delle
proprie intenzioni. Se infatti il sistema della doppia
notificazione proposto da Riphagen eccedeva per la sua cavillosità,
non è da sottovalutare limpatto preventivo di
comunicazioni dettagliate e tempestive che forniscano alla
controparte lesatta portata della crisi e le conseguenze
della medesima. Non manca comunque nella proposta dellautore,
la previsione di alcune eccezioni che esentano lo Stato leso
dalle modalità procedurali appena descritte. Si tratta delle
ipotesi: in cui lo Stato offensore agisca in malafede nella fase
di regolamento pacifico; se si tratta di misure precauzionali
fintantoché la loro ammissibilità non venga valutata da un
organo internazionale; se lo Stato offensore non attui le misure
precauzionali indicate da un organo internazionale, a condizione
che non risulti minacciata la pace e la sicurezza internazionale
(41).
Sottoposta
al vaglio della CDI la proposta di Arangio-Ruiz ha subito forti
critiche, determinate essenzialmente dalla volontà di ridurre al
minimo i vincoli procedurali posti al diritto di autotutela dello
Stato leso. Ammessa, infatti, la possibilità che uno Stato possa
reagire ad un illecito internazionale attraverso contromisure,
non si comprende la ratio di una normativa che ne
diminuisca leffettivo potenziale.
Richiedere
allo Stato leso, quale conditio sine qua non della
legittimità della contromisura, di ricorrere agli strumenti di
regolamento delle controversie previsti in any relevant
treaty di cui ambedue gli Stati siano parti, comporta
la necessità di porre in essere una serie di procedura
preventive che, oltre a non fornire la certezza del risultato
finale, rallentano il regolamento della fattispecie in questione.
Inoltre, nel caso di un fallimento di questi strumenti la
contromisura adottata dallo Stato potrebbe non produrre i
risultati sperati. La maggior parte di queste misure, infatti,
produce i propri effetti soltanto se posta in essere
immediatamente dopo la commissione dellillecito al quale si
vuole reagire (42).
Allo stesso
modo, richiedere una appropriata e tempestiva comunicazione
delle proprie intenzioni da parte dello Stato leso se
consente alla controparte di comprendere lesatta portata
della crisi, limita comunque lefficacia conservativa di
alcune misure (43). Per questa ragione si fece strada lidea
di prevedere la necessità di ricorrere a procedure di
regolamento amichevole quale co-requisito di alcune particolari
fattispecie di contromisure (44).
La soluzione
alla quale la CDI è pervenuta con lapprovazione dellart.
48 della seconda parte del progetto costituisce una giusta
mediazione tra le diverse posizioni espresse: Avant de
prendre des contre-mesures, un État lésé sacquitte de lobligation
de négocier prévue à lart. 54. Cette obligation est sans
préjudice de ladoption par cet État des mesures
conservatoire qui sont nécessaires pour préserver ses droits et
sont par ailleurs conformes aux conditions stipulées dans le présent
chapitre [
] (45).
Secondo
quanto previsto dalla norma, lo Stato leso ha lobbligo (in
applicazione dellart. 54) di tentare una soluzione di
carattere negoziale. Nonostante ciò, egli ha il diritto di porre
in essere immediatamente delle misure cautelari, dirette a
proteggere la propria posizione giuridica in attesa dei risultati
del negoziato. Ciò che distingue questo tipo di misure dalle
contromisure propriamente dette per le quali la norma
richiede un previo obbligo di negoziazione è la natura
reversibile della fattispecie. Si deve trattare, cioè, di
strumenti che producano effetti non permanenti.
Questa
disposizione non pregiudica, comunque, la possibilità di
ricorrere a metodi di regolamento di tipo diverso. Si richiamano
in questo senso sia i trattati di cui gli Stati interessati siano
parti, sia la possibilità di ricorrere alle procedure previste
dalla terza parte del progetto (soluzione pacifica delle
controversie internazionali).
La norma
prevede inoltre che, a condizione che il fatto illecito sia
cessato, lo Stato leso deve sospendere le contromisure se
sussiste la buona fede dello Stato offensore nelladozione
della procedura solutoria prevista o se la controversia sia stata
sottomessa ad un tribunale abilitato ad emettere una decisione
vincolante per le parti. Comunque, nel caso in cui la parte non
si conformi alla soluzione concordata tra le parti o imposta dal
tribunale arbitrale, cessa lobbligo di sospensione (46).
Si comprende,
quindi, come il sistema creato dalla CDI segni un netto progresso
nella disciplina del rapporto esistente tra contromisure e mezzi
di soluzione pacifica. Esso concede infatti alla parte lesa
la possibilità di tutelare immediatamente i propri diritti (attraverso
misure cautelari) ma, allo stesso tempo, evita una eventuale
rottura dei rapporti tra gli Stati interessati, prevenendo in
questo modo laggravarsi della controversia.
Dallanalisi
svolta si comprende la difficoltà che linterprete incontra
nel cercare di definire con certezza i meccanismi operanti in
questo settore della disciplina attinente alla prevenzione dei
conflitti. Emerge, però, che se non si può affermare con
certezza lesistenza di un vero e proprio obbligo giuridico
di previo ricorso ad attività procedurali in attesa di
attribuire una valenza cogente al progetto della CDI si
deve riconoscere una naturale tendenza delle scelte
dello Stato verso forme lecite di comportamento. Si preferisce,
in sostanza, tentare la via di unazione lecita (strumento
pacifico) prima di ricorrere ad unazione in sé illecita (contromisura),
anche se comunque ammessa dal diritto.
Note
(1) Tomuschat, Art.
33, in Simma (a cura di), The Charter of the United
Nations. A Commentary, Oxfprd, 1994, pp. 505-514.
(2) Ibid., p. 506. La
natura di norma di collegamento di questa fattispecie è
chiaramente deducibile dalla lettera della disposizione citata la
quale utilizza il termine anzitutto (first
of all, avant tout) per indicare lazione
delle parti coinvolte.
(3) Mentre lart.
38 si limita ad enunciare la facoltà delle parti di devolvere la
questione al Consiglio, lart. 37 afferma che se le
parti di una controversia della natura indicata dallart. 33
non riescono a regolarla con i mezzi indicati da tale articolo,
esse devono deferirla al Consiglio di Sicurezza. Nel caso,
poi, in cui il Consiglio accerti lesistenza delle
condizioni di cui allart. 39, potrà valutare la possibilità
di un intervento coercitivo ex capitolo VII.
(4) Hutchinson, The
Material Scope of the Obligation under the United Nations Charter
to Take Action to Settle International Dispute, in Australian
Yearbook of International Law, 1992, p. 1 ss.
(5) La natura cogente
della norma emerge anche dal confronto con il testo inglese dellart.
33, che utilizza il temine shall e con il
testo francese, che utilizza il termine doivent.
Quéneudec, Art. 33, in Cot e Pellet (a cura di), La
Chartre des Nations Unies. Commentaire article par article, Paris,
p. 567.
(6) Nguyen, Daillier,
Pellet, Droit international public, Paris, 1994, p. 775.
(7) Tomuschat, op.
ult. cit., p. 508.
(8) Anche lart.
20 della prima parte del progetto di articoli sulla responsabilità
degli Stati, elaborato dalla Commissione per il diritto
internazionale, ha definito questa fattispecie come obbligo di
condotta. Cfr. Annuaire de la Commission du droit
international, 1980, II, pt. II, p. 30.
(9) Tomuschat, Art.
2(3), in Simma (a cura di), cit., pp. 101-102.
(10) C.I.G., sent.
del 27 Giugno 1986, attività militari e paramilitari degli Stati
Uniti in Nicaragua, in CIJ, Recueil, 1986, p. 145.
(11) Lart. 33
consente infatti agli Stati di ricorrere anche ad altri
mezzi pacifici di loro scelta.
(12) La libertà di
scelta è stata successivamente riaffermata dalla Dichiarazione
di Manila del 1982.
(13) Questo concetto
è espressione di una visione contrattualistica della comunità
internazionale, che vede una diretta e necessaria corrispondenza
tra lobbligo di uno Stato e il diritto soggettivo di un
altro. Secondo questa visione, gli stessi rapporti multilaterali
non sono altro che una pluralità di rapporti bilaterali. Focarelli,
Le contromisure nel diritto internazionale, Milano, p. 269
ss.
(14) Può trattarsi
dellimposizione di una nuovo obbligo a carico dellautore
dellillecito (natura riparatoria) o consistere nellesercizio
di una facoltà da parte del soggetto leso (natura repressiva).
(15) Ladattamento
allordinamento internazionale di questa teoria applicabile
soprattutto al diritto interno è, in parte, sostenuta da diversi
autori. Tra gli altri si veda Lattanzi, Garanzie dei diritti
delluomo nel diritto internazionale generale, Milano,
1983, pp. 45-78.
(16) Lattanzi, Sanzioni
internazionali, in Enciclopedia del Diritto, Milano,
1989, pp. 536-574.
(17) Il termine
contromisura ricorre anche nei lavori della
Commissione per il diritto internazionale in tema di
codificazione delle norme sulla responsabilità internazionale.
Venne proposto dal rapporteur Ago, perché
considerato più adatto a rappresentare quelle azioni (od
omissioni) che il singolo Stato leso può adottare nei riguardi
dello Stato autore dellillecito. Il termine ricorre nellart.
30 della prima parte del progetto di articoli e a questa
terminologia si sono adeguati anche i relatori Riphagen e Arangio-Ruiz
nella preparazione della seconda e della terza parte del progetto.
Gianelli, Adempimenti preventivi alladozione di
contromisure internazionali, Milano, 1997, p. 11 ss.
(18) Si distingue in
dottrina la rappresaglia dalla ritorsione. Questultima
si concreta in un comportamento lesivo di un interesse
giuridicamente non protetto dello Stato responsabile di
violazioni del diritto internazionale. In quanto conseguenza
diretta di tale violazione, questa azione indurrebbe alladempimento
dellobbligo violato, funzionando inoltre quale deterrente
per future violazioni. Risulta spesso difficile allinterprete
dettare con precisione i criteri distintivi tra le due
fattispecie. Lattanzi, Sanzioni internazionali, cit., pp.
554-558.
(19) Cfr. Annuaire,
cit., 1980, II, pt. II, p. 30 ss.
(20) En présence
dune situation qui comporte à son avis la violation dune
obligation internationale par un autre État, il [lÉtat] a
le droit, sous la réserve des règles générales du droit
international relatives aux contraintes armée, de faire
respecter son droit par des contre-mesures. Tribunale
arbitrale franco-statunitense, sent. 9 Dicembre 1978, servizi
aerei, in Revue française de droit aérien, 1979, p.
486.
(21) Mentre nel primo
caso la reazione sarà imputabile allOrganizzazione nel suo
insieme, nel secondo caso lo Stato conserva invece lassoluta
titolarità della facoltà di reagire e limputabilità
autonoma della reazione. Focarelli, op. cit., p. 329.
(22) In questo senso,
si veda la Dichiarazione del 1970 sulle relazioni amichevoli
nonché lAtto finale di Helsinki del 1975.
(23) Lart. 51
garantisce anche la legittima difesa collettiva allattacco
armato nei confronti di uno Stato, purché sussista il consenso
dello Stato vittima.
(24) Lattanzi, Sanzioni
internazionali, cit., pp. 547-553. Contrariamente, la Corte
internazionale di giustizia ha invece affermato che la reazione
armata è legittima soltanto in caso di aggressione armata.
Attività militari e paramilitari in Nicaragua, in CIJ, Recueil,
1986, p. 103. Focarelli sostiene linutilità di una
differenza concettuale tra legittima difesa e rappresaglia armata.
Egli afferma che le due ipotesi possono essere ricomprese nel
concetto generale di contromisura armata, lecita soltanto nelle
ipotesi previste dallart. 51. Focarelli, op. cit., p. 311.
(25) Il tentativo
maggiormente riuscito di condannare luso della forza non
armata è costituito dalla Dichiarazione di Helsinki del 1975.
(26) Un esempio
tipico in tal senso è costituito dalle misure attuate dagli
Stati Uniti e da altri Stati latino-americani contro Cuba nel
1959, dopo la vittoria di Castro. Tali atti, che si spinsero fino
a dichiarare il blocco dellisola, erano determinati dalla
volontà di rovesciare il governo comunista al potere e non
avevano nulla a che fare con il ripristino della legalità
violata.
(27) Cfr. Annuaire,
cit., 1996, II, pt. II, p. 68.
(28) Il necessario
rispetto di un criterio di proporzionalità è emerso sin dai
lavori della CDI relativi alla stesura dellart. 30 della
prima parte del progetto (cfr. Annuaire, cit., 1979, II,
pt. II, p. 135). Il rapporteur Riphagen ha attribuito
particolare importanza alla necessità di valutare la
proporzionalità, tra loffesa e la reazione, in relazione
al caso di specie. Riphagen, Rapporto preliminare, in Annuaire,
cit., 1980, II, pt. I, p. 126.
(29) Lattanzi, Garanzie
dei diritti delluomo nel diritto internazionale generale,
cit., p. 45 ss.
(30) Esempi in tal
senso sono stati offerti da quelle misure adottate nei confronti
delle violazioni del diritto allautodeterminazione dei
popoli, contro la politica di apartheid, il genocidio e
altre gravi violazioni dei diritti umani.
(31) Opinione
condivisa dalla Corte internazionale di giustizia, che ha
riconosciuto lesistenza di obblighi consuetudinari erga
omnes la cui violazione legittima, potenzialmente, tutti i
soggetti internazionali a reagire. Barcelona Traction, in CIJ, Recueil,
1980, p. 32.
(32) E stato il
caso delle misure adottate anche dai membri della Comunità
Europea (non solo dalla Gran Bretagna) contro lArgentina,
in occasione delloccupazione delle Falkland; delle misure
adottate da molti Stati (non solo gli Stati Uniti) nei confronti
dellIran in occasione della detenzione di ostaggi americani
allambasciata di Teheran. Lattanzi, Sanzioni
internazionali, cit., pp. 553-555.
(33) Focarelli, op.
cit., pp. 317-327.
(34) Anche lart.
47 della seconda parte del progetto della CDI afferma che lo
Stato leso ha la facoltà di adottare una contromisura solo in
seguito ad una specifica richiesta di riparazione o di cessazione
del comportamento illecito che non abbia ottenuto una risposta
soddisfacente da parte dello Stato offensore. Cfr. Annuaire, cit.,
1996, II, pt. II, p. 191.
(35) Anzilotti, Corso
di diritto internazionale, Padova, 1955, p. 384 ss. Questa
teoria di Anzilotti ha avuto tra i suoi maggiori sostenitori il rapporteur
Ago, il quale ha indirizzato in questo senso i lavori della CDI.
(36) Conforti, Diritto
internazionale, Napoli, 1997, pp. 345-394.
(37) In genere lo
Stato leso propone alla controparte, quasi sempre contestualmente
alla richiesta di riparazione per il torto subito, un tentativo
di soluzione diplomatica della questione. Per unanalisi
dettagliata della prassi degli Stati in tal senso si veda Focarelli,
op. cit., p. 1 ss.
(38) Tra gli altri si
veda Lattanzi, op. ult. cit., p. 544; Focarelli, op. ult. cit. pp.
360- 377.
(39) Rilevanti in
questo senso sono la necessità di non pregiudicare la propria
credibilità internazionale, nonché la valutazione delle
conseguenze economiche di una eventuale contromisura.
(40) Riphagen, Seventh
Report on State Responsability, in Annuaire, cit.,
1986, II, pt. I, pp. 59-90.
(41) Arangio-Ruiz,
Counter-measures and Amicable Dispute Settlement Means in the
Implementation of State Responsability: A Crucial Issue before
the ILC, in European Journal of International Law, 1994,
pp. 20-53.
(42) Si pensi al
congelamento dei beni dello Stato offensore. Questa misura se non
adottata tempestivamente rischia di non produrre i risultati
sperati a causa dalla fuga di capitali che tale Stato può porre
in essere durante la lunga fase delle procedure di regolamento. Tomuschat,
Are Counter-measures Subject to Prior Recourse to Dispute
Settlement Procedures?, in European Journal of
International Law, 1994, pp. 77-88; Simma, Counter-measures
and Dispute Settlement: A Plea for a Different Balance,
in European Journal of International Law, 1994, pp. 102-105.
(43) Ibid.
(44) Crawford, Counter-measures
as Interim Measures, in European Journal of International
Law, 1994, pp. 65-76.
(45)Cfr. Annuaire,
cit., 1996, II, pt. II, p. 68.
(46) Ibid., pp. 73-75.