ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITA'
- TUTELABILITA', DOPO L'EMISSIONE DEL DECRETO DI ESPROPRIAZIONE, DEL POSSESSO
PERDURANTE IN CAPO ALL'ESPROPRIATO CHE ABBIA CONSERVATO IL GODIMENTO DEL FONDO.
(Cassazione - Sezione Prima Civile -
Sent. n. 5293/2000 - Presidente R. Sgroi - Relatore S. Sotgiu)
SVOLGIMENTO
DEL PROCESSO
Con atto 27 luglio 1991 (omissis)
convennero avanti al Tribunale il Comune di Roma, per sentir dichiarare
l’intervenuta usucapione in loro favore di un terreno con sovrastante
fabbricato, in abitato di Roma, espropriato dal Comune con decreto prefettizio
29 dicembre 1970, rimasto in possesso degli attori nell’inerzia del Comune, che
non aveva attuato l’intervento previsto dalla dichiarazione di pubblica
utilità, né si era immesso in possesso dell’immobile.
Il Tribunale adito, con sentenza 19 luglio
1995, respinse la domanda attrice, e in accoglimento della riconvenzionale del
Comune, condannò i consorti (omissis) al risarcimento dei danni in favore
del Comune per il periodo successivo al 30 ottobre 1991.
La Corte d’appello di Roma, con sentenza 2
luglio 1997, ha confermato tale pronuncia, escludendo che il passaggio di
proprietà determinato dal decreto di espropriazione potesse comportare la
persistenza dell’"animus possidendi" negli espropriati, i quali
avevano mantenuto la mera detenzione del bene, in assenza di prova di
interversione nel possesso, cioè di mutamento del titolo del possesso per
opposizione nei confronti del possessore. A favore di tale tesi la Corte ha richiamato
la circostanza dell’azione per la rideterminazione della indennità intrapresa
dagli attori, che avevano dunque riconosciuto il titolo dell’espropriante.
Quanto alla pretesa risarcitoria, la Corte ha
ritenuto che dovendo l’espropriante attivarsi per occupare il bene espropriato,
non poteva ritenersi illegittimo il comportamento degli espropriati, rimasti
nel godimento dell’immobile per inattività del Comune, il quale non aveva dato
prova di danni subiti anteriormente al 30 ottobre 1991.
Per la cassazione di tale sentenza hanno
proposto ricorso i consorti (omissis) sulla base di un unico motivo.
Il Comune di Roma resiste con controricorso. I ricorrenti hanno prodotto una
duplice memoria.
Anche il resistente ha presentato memoria.
MOTIVI
DELLA DECISIONE
Adducendo la violazione degli artt. 1940 e
1941 cod. civ. (rectius: 1140 e 141 c.c.) delle norme del capo V sez. I della
legge 25 giugno 1865 n. 2359, nonché difetto di motivazione, i ricorrenti
sostengono che poiché la vendita con effetti reali non si realizza
automaticamente, occorrendo il trasferimento anche del possesso, lo stesso
principio dovrebbe valere nel caso dell’espropriazione, riproducendo l’art. 50
della legge n. 2359 del 1865 il principio dell’art. 1376 cod. civ., relativo
alla vendita con effetti reali.
La permanenza dell’espropriato nel possesso
dell’immobile ablato va pertanto qualificata come detenzione o possesso,
secondo i casi, senza affermazioni di principio, tenuto conto della rilevanza
del momento occupazionale nel procedimento espropriativo. Infatti, se
l’occupazione è avvenuta, la permanenza dell’espropriato sul fondo non può
costituire altro se non detenzione, mentre se l’occupazione, come nella
fattispecie, non è intervenuta, il possesso non può in alcun modo considerarsi
trasferito all’espropriante (che ha ottenuto, con l’esproprio l’"ius
possidendi", ma non l’"ius possessionis"), - ma permane in capo
all’espropriato, il quale abbia continuato, come nella specie, ad esercitare le
facoltà del proprietario (stipula di contratti di locazione, incasso dei
canoni, pagamento dei tributi).
Né la richiesta di indennità comporta
riconoscimento dello "ius possidendi" del Comune, poiché il relativo
"animus", che rappresenta la signoria sulla cosa, è elemento non
incompatibile con la conoscenza dell’altrui diritto, in quanto la pretesa del
possesso prescinde dalla esistenza o meno della corrispondente posizione di
diritto soggettivo.
Il ricorso è fondato.
Merita, in primo luogo, censura
l’affermazione della Corte d’appello, secondo la quale l’espropriata ha
riconosciuto di non essere proprietaria dell’immobile, agendo per ottenere la determinazione
dell’indennità di espropriazione, e quindi ha tenuto un comportamento incompatibile
con la volontà rem sibi habendi, in contrasto con il titolo dell’espropriante.
Invero, è giurisprudenza pacifica di questa Corte che, ai fini dell’usucapione,
non è necessario che l’animus sibi rem habendi consista nella convinzione di
esercitare un potere di fatto, in quanto il soggetto sia titolare del relativo
diritto, bensì che tale potere venga esercitato come se si fosse titolari del
corrispondente diritto, indipendentemente dalla consapevolezza che invece
questo appartiene ad altri (Cass. 5 settembre 1998 n. 8823; Cass. 12 maggio
1999 n. 4702 e Cass. 24 marzo 1997 n. 2565; Cass. 25 marzo 1997 n. 2590; Cass.
1 luglio 1996 n. 5964 ed altre conformi). E, pertanto, l’azione per conseguire
l’indennità di esproprio riguarda la titolarità del diritto di proprietà e non
il possesso del bene, ed ha pertanto – ai fini del possesso – la medesima
irrilevanza dell’azione per conseguire il prezzo, in una comune compravendita,
nella quale la giurisprudenza più recente e prevalente (in contrasto con quella
secondo cui nella vendita con effetti reali immediati, una volta concluso il
contratto, l’acquirente consegue immediatamente il possesso, senza necessità di
materiale consegna: da ultimo, Cass. 22 giugno 1991 n. 1671; Cass. 29 maggio
1981 n. 3523) ha ritenuto che nel negozio traslativo della proprietà e di altro
diritto reale non è ravvisabile un costituto possessorio implicito, nel senso
che al trasferimento del diritto segua automaticamente quello del possesso
(Cass. 16 dicembre 1983 n. 7419; Cass. 27 febbraio 1989 n. 1049, secondo cui il
persistente godimento della cosa compravenduta, da parte dell’alienante che non
abbia provveduto a consegnarla, può integrare possesso, idoneo al riacquisto
della proprietà per usucapione, ove non risulti, anche alla stregua dei patti
contrattuali, la ricorrenza di una mera detenzione nomine alieno: (Cass. 18
marzo 1981 n. 1613; Cass. 21 dicembre 1993 n. 12621; Cass. 11 ottobre 1989 n.
4957, ed altre conformi).
La Corte ritiene, peraltro, che le suddette
considerazioni possono costituire un iniziale approccio al problema di causa,
nel senso che la disciplina dei trasferimenti volontari della proprietà non
contraddice, in linea di massima, con l’assunto dei ricorrenti, ma che la
soluzione vada ricercata nell’ambito dei trasferimenti coattivi, quale è quello
che si realizza con la pronuncia del decreto di espropriazione, in mancanza di
un’occupazione di fatto (e, a quanto consta dalla sentenza impugnata, anche in
mancanza dell’emanazione di un decreto di occupazione).
La soluzione data al problema da Cass. 6966
del 1988 non sembra né percorribile, né adeguata al presente caso.
Infatti, il collegamento – ivi affermato –
alla perdita della proprietà della cosa, per effetto del decreto di esproprio,
della perdita dell’elemento soggettivo del possesso (in capo all’espropriato,
che potrebbe tutt’al più continuare a detenere il bene, come avviene
nell’ipotesi civilistica del costituto possessorio) è privo di una convincente
dimostrazione. Inoltre, in quella specie, come risulta da p. 9 della sentenza,
l’opera pubblica era stata realizzata ed il terreno espropriato era stato
utilizzato nel termine previsto dalla dichiarazione di pubblica utilità, di
guisa che era evidente il passaggio del possesso in capo all’espropriante.
Invece, il richiamo al "costituto
possessorio" (nell’ambito dei trasferimenti coattivi, quale è quello
dipendente dal decreto di espropriazione per p.u.) è del tutto improprio, come
ha già affermato questa Corte, con sentenza 2 luglio 1966 n. 1716, che ha
osservato che la vendita forzata (art. 2919 c.c.) non concreta di per sé un
caso di costituto possessorio, poiché con essa il diritto di proprietà è
trasferito contro la volontà dell’espropriato – possessore e nessun accordo
interviene fra questo e l’aggiudicatario, né in relazione alla proprietà, né in
relazione al possesso. Pertanto, un provvedimento di aggiudicazione non
determina automaticamente, per il solo fatto che venga pronunciato (ed a
prescindere dalla sua esecuzione) il mutamento dell’animus rem sibi habendi del
proprietario espropriato, trasformandolo in animus detinendi alieno nomine.
L’art. 2919 c.c. infatti disciplina il trasferimento del diritto di proprietà,
ma non dispone che l’espropriato perda ipso iure il possesso della cosa,
mutandolo in detenzione in nome dell’espropriante.
Non vi è alcun ostacolo ad applicare il
suddetto principio al caso dell’espropriazione per p.u., perché nessuna
disposizione della sua disciplina lo contraddice. Non l’art. 52 della legge n.
2359 del 1865, che riguarda i diritti dei terzi sul bene espropriato e non i
rapporti fra espropriante ed espropriato (come risulta dal titolo della sezione
2° del capo V della legge); non l’art. 63, che comporta il diritto alla
retrocessione, in caso di mancanza di esecuzione dell’opera pubblica nel
termine, perché dall’esistenza di tale rimedio (che riguarda la proprietà dei
beni ed il suo riacquisto) non è dato dedurre l’inesistenza di altri rimedi a
tutela del possesso del bene. La distinzione fra "proprietà" e
"possesso" è essenziale, nel caso di cui è controversia.
Anzi, l’insistenza con cui il Comune indica
l’unico rimedio a favore delle controparti nella richiesta di retrocessione del
bene, significa che al bene non è stata data quella destinazione pubblica (che
è il fine, ma non l’effetto immediato del decreto di esproprio: cfr. Sez. un.,
23 febbraio 1954 n. 517 e 22 marzo 1954 n. 789) che comporta la impossibilità
di un possesso utile ai fini dell’usucapione. Il bene è entrato nel patrimonio
disponibile del Comune, perché l’opera pubblica non è stata eseguita, e
pertanto, sotto tale profilo, non vi sono ostacoli all’usucapione.
È, infine, evidente, che il problema
dell’interversione (trattato dalla sentenza impugnata) resta assorbito dalle
considerazioni fatte. Invero, la sentenza impugnata lo ha trattato, perché ha
ritenuto che l’eventuale protrarsi del godimento da parte del soggetto
espropriato integra mera detenzione e non già possesso, essendo venuto meno
l’animus possidendi, in connessione con l’acquisita consapevolezza dell’altrui
diritto (di proprietà). Poiché tale premessa è errata (dato che la
consapevolezza che il diritto di proprietà appartiene ad altri non escluse
affatto l’animus possidendi: vedi supra) è evidente che non si pone, allo
stato, come elemento necessario di fatto, il sopravvenire di una interversione,
dovendo prima accertarsi (senza gli ostacoli sotto il profilo giuridico
infondatamente ritenuti dal giudice a quo) tale animus, fin dall’origine della
vicenda espropriativa.
Gli atti previa cassazione della sentenza
impugnata vanno quindi rimessi per un nuovo esame ad altra sezione della Corte
d’appello di Roma, che provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.
PER
QUESTI MOTIVI
La Corte di Cassazione accoglie il ricorso;
cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per la pronuncia sulle spese del
giudizio di cassazione, ad altra sezione della Corte d’appello di Roma.